Da Iggy Pop a Varoufakis lo zibaldone delle urne

12.06.2017 16:06

“Se si vorranno trarre indicazioni politiche dalle amministrative di ieri, forse la più solida è che non è successo niente. Non era successo niente prima e non succederà niente oggi, e niente poteva succedere al termine di una campagna elettorale di cui poco si ricorda”. Nel pezzo di Mattia Feltri (La Stampa, 12 giugno 2017) l’ironia la fa da padrona, e tuttavia non mancano gocce di verità su cui riflettere. Nel mirino non soltanto un modo diffuso di commentare i fatti della politica, ma più in generale i modi del “fare politica” con i quali sempre più spesso ci tocca fare i conti.

Nella complicata analisi del post voto, abbiamo due certezze. Prima: è andato molto bene il concerto di Iggy Pop a Bari. Seconda: è andato anche meglio il concerto dei Guns N’ Roses a Imola. Ottantamila spettatori in Puglia, centomila in Emilia, e nemmeno un ferito schiacciato per psicosi da folla. Già un successo, parrebbe, visto che il segretario del partito democratico, Matteo Renzi, s’è sentito di complimentarsi vivamente coi sindaci delle due città, come se in Italia, dopo Torino, ogni raduno di piazza debba risolversi con ricoveri di massa. Eppure, dicono i più sottili analisti del renzismo, le due note avevano proprio lo scopo del rimprovero a Chiara Appendino e all’intero Movimento cinque stelle. Mah. Adesso forse ci sarà qualche ragione in più, e più concreta, di spassarsela alle spalle dei grillini, visti i risultati, per esempio, di Parma, Genova e Palermo. Eppure, se si vorranno trarre indicazioni politiche dalle amministrative di ieri, forse la più solida è che non è successo niente. Non era successo niente prima e non succederà niente oggi, e niente poteva succedere al termine di una campagna elettorale di cui poco si ricorda. Qualcuno si è acceso per gli indizi di sovversione squadernati dal sindaco di Verona, l’ex leghista Flavio Tosi, che sosteneva fin davanti ai magistrati di essere stato pedinato da oscuri nemici. Qualcuno ha scorto una promessa per il paese nel modello Pistoia indicato dalla leader di F.lli d’Italia, Giorgia Meloni, perché lì il «centrodestra compatto» sostiene un solo candidato? Avete la pelle d’oca? Sarebbe forse più interessante scoprire che cosa bevano a mangino, a Pistoia, dove l’anagrafe ha segnalato con gusto che sono iscritti alle liste elettorali ventuno ultracentenari.

Ma va benissimo così. C’era altro a cui pensare, nei giorni scorsi. Persino l’intramontabile Rosi Bindi era spuntata, a pochi giorni dal voto, per stilare il classico elenco delle impresentabilità: tre presunti mascalzoni in dieci comuni, i soli controllati di un migliaio abbondante. La Commissione antimafia, delegata alla verifica, aveva avuto soltanto due giorni per setacciare una profusione di partiti e liste civiche e decine di migliaia di candidati. Che senso abbia proseguire in questa semipoliziesca attività, è davvero misterioso. Ma il punto è che anche l’accorata conferenza stampa di Bindi, incentrata sulle gravi perplessità che in certe zone (naturalmente al sud) sollevano le liste civiche, dietro cui si nasconderebbero clientele e forse criminalità organizzata, non se l’è filata nessuno. Il nostro eroe è diventato, in un breve pomeriggio di gloria, Angelo Cofone, vincitore del premio Cetto La Qualunque che da un quindicennio si assegna al candidato meno pratico di sussidiari. I pochi che non sanno di che stiamo parlando, vadano a vedersi il video del suo comizio ad Acri, Cosenza, anche per farsi un’idea di quanto gusto ci sia a trovare uno su cui misurare, con successo, il nostro grado di cultura.

Sembrava molto più bello, a noi, che ieri, molto prima del tramonto, ci fossero già due sindaci acclamati, e dunque sfuggiti alla logica stordente degli exit poll: Fabio De Pedro a Paspardo e Massimo Mattei a Provaglio Valsabbia, due comuni del bresciani in cui i candidati non avevano avversari se non il quorum. Ottimo, altrimenti non sarebbe rimasto che di riflettere sui risvolti sociali, tendenti all’ottimismo, delle due signore che hanno deciso di entrare al seggio vestite da sposa, una nel reatino e l’altra in provincia di Catanzaro. Oppure di trarre segnali inequivocabili dal risultato di Rignano sull’Arno, dove bravi cronisti avevano annotato per le agenzie l’orario preciso in cui era andato a votare Babbo Renzi. Eh bè. Come sono lontani i tempi gloriosi in cui il paese andava in fiamme sui complotti delle matite copiative. Ricordate quelle ore tambureggianti sulle tastiere di Facebook per i foschi tranelli del palazzo? Meglio così, non c’è dubbio. In una domenica silenziosa, non ci restava che aspettare il risultato di Carla Cimoroni, candidata all’Aquila di un gruppo di liste «della coalizione sociale» molto orgogliose di pubblicizzare il sostegno ottenuto da Yanis Varoufakis, il ministro delle Finanze del primo governo Tsipras, e soprattutto incuranti del pericolo, visto che Varoufakis, in quanto a consenso, è una specie di calamità naturale. Era quasi elettrizzante attendere come si sarebbero spartiti i voti i dieci aspiranti sindaco di Taranto e i nove di Gorizia, che si erano contesi aree politiche e gruppi d’influenza, e sono divisi da confini ingarbugliati e psicotici: di diciannove non uno s’avvicina al 30 per cento, per rendere l’idea di come gli italiani spesso votino, in un proporzionale dell’anima. E nessuna notizia, nemmeno dalla più marginale proiezione, sul candidato rom per il consiglio comunale di Lucca che aveva scritto a Mark Zuckerberg per chiedergli di colmare una grave lacuna: su Facebook manca l’emoticon (faccina) coi colori verde e azzurri dei popoli nomadi. In campagna elettorale, avrebbe avuto il suo peso.

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