Attentato di Manchester - L'orrore spiegato ai nostri figli

24.05.2017 18:56

E’ dedicata all’ennesimo mostruosa carneficina - quella di Manchester di lunedì scorso, 22 maggio, che ha causato la morte di 22 persone (soprattutto teen ager) e il ferimento di altre svariate decine - la “controcopertina” di Repubblica del 24 maggio 2017. Attraverso tre preziosi e lungimiranti articoli, Massimo Recalcati, Massimo Ammaniti ed Eraldo Affinati ci introducono nel “compito di chi sopravvive alla tragedia”, nelle “parole giuste per non turbare i più piccoli”, nella “sfida di resistere alla rabbia, a partire dalla scuola”

L’infanzia perduta del mondo (Il compito di chi sopravvive alla tragedia)
di Massimo Recalcati

L’obiettivo tragicamente chiaro: uccidere nel mucchio le vite dei nostri figli in un luogo di festa. Lo strumento terribilmente noto: una bomba cieca costruita per fare a pezzi i loro giovani corpi offrendoli al Dio pazzo e sanguinario che vuole la morte degli infedeli. E noi? Noi che restiamo attoniti di fronte a questa orrida malvagità? Non siamo solo esposti allo sgomento della nostra vulnerabilità impossibile da proteggere, al fatto semplice e brutale che niente può garantirci una sicurezza adeguata se il “nemico” ci colpisce in questo modo moltiplicando infinitamente i nostri punti sensibili. Siamo anche investiti di una responsabilità enorme.

Cosa fare, cosa dire di fronte all’angoscia dei nostri figli? Quale responsabilità hanno gli adulti che osservano impotenti lo scempio compiuto sulle vite innocenti? Cosa possiamo fare per aiutare quelle vite che non sono state spezzate dalla violenza assurda della morte? L’obiettivo del narcisismo folle del terrorista islamico è quello di generare angoscia. Colpire l’innocente è colpire tutto il mondo. In gioco non è solo la punizione dell’Occidente corrotto, ma la chiusura, l’annientamento dell’orizzonte stesso del mondo. Dopo ogni attentato dove i nostri figli muoiono, muore con loro anche un pezzo di mondo. Dopo ogni attentato l’orizzonte del mondo si restringe, la libertà si riduce, si contrae, non è più libera.

Siamo tutti, a causa della follia terrorista, nella condizione paradossale di vivere in una sorta di libertà prigioniera. È questo il vero messaggio di morte che il terrorismo ogni volta rinnova soprattutto quando stronca la vita nel pieno della sua giovinezza. La nostra prima responsabilità è fare in modo che questo lutto possa diventare davvero collettivo. Ma cosa significa? Condividere il lutto — renderlo collettivo — significa condividere un dolore sordo che vorrebbe separarsi e allontanarsi da tutto, significa continuare a scegliere l’apertura del mondo alla tentazione della sua chiusura. È il terrorismo che vuole il muro, la guerra, lo scontro, il conflitto senza tregua. È il terrorismo che vuole che il mondo si chiuda, che perda la sua apertura.

Condividere il lutto significa allora preservare il mondo come un luogo aperto del quale non si deve avere paura. Come accade in quel noto esperimento di psicologia evolutiva dove si invita un bambino piccolo a gattonare verso un precipizio illusorio. Se il volto della madre che lo osserva reagisce con un’espressione di spavento, il bambino si blocca e si mette a piangere disperatamente. Se, invece, la madre risponde con un sorriso il bambino, dopo un attimo di esitazione, riprende a gattonare attraversando felice e sicuro il precipizio. La paura è dissolta.

Ecco la responsabilità che ci investe: dare prova di saper resistere, di fronte allo sguardo impaurito dei nostri figli, alla tentazione della chiusura. Nella vita dei nostri figli — nella vita dell’innocente — è custodito il segreto del mondo. La vita dei nostri figli coincide con l’avvenire, con il dono, con la vita stessa del mondo. Sopprimerla è voler sopprimere la vita del mondo. Tenere aperto il mondo è, dunque, la sola possibilità di continuare a fare vivere i nostri figli. Solo se non tutto è morte, la vita può avere ancora un senso.

Questo non significa sottovalutare il delirio teologico che ispira questi assassini. Il loro mondo vorrebbe sopprimere il mondo in quanto tale. È la manifestazione più odiosa del fondamentalismo. Essi ci dicono: «Il tuo mondo non vale nulla, è fatto di concerti e cose frivole, è fatto solo di polvere; il solo mondo che conta è il mondo al di là del mondo dove i martiri saranno ricompensati illimitatamente del loro sacrificio». Ecco, noi siamo, invece, quelli che abitano il mondo. È questa la prova che dobbiamo sostenere per amore dei nostri figli: mostrare loro che questo mondo fatto di polvere è in realtà anche ricco di luce, che non tutto è morte.

Si tratta di testimoniare più che spiegare. Testimoniare cosa? Testimoniare l’apertura e non la chiusura del mondo. Come? Non avendo paura, rifiutando l’angoscia, respingendo la rassegnazione. Mostrare che la morte non è l’ultima parola sulla vita. Non lasciare che l’illusione teologica dei terroristi trasformi il nostro mondo in un luogo di polvere e di paura. Di fronte al flagello inesorabile dell’epidemia che trascinava con sé le vite di bambini innocenti, il padre gesuita Paneloux, uno dei protagonisti del romanzo “La Peste” di Camus, distingueva gli uomini in due tipi: quelli che fuggono dal dolore e dalla malattia e quelli che restano. Condividere il lutto — fare del lutto un evento collettivo — significa mettersi, di fronte agli occhi smarriti dei nostri figli, dalla parte di quelli che sanno restare, che sanno, appunto, mantenere sempre aperto l’orizzonte del mondo.

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Come raccontare la paura (Le parole giuste per non turbare i più piccoli)
di Massimo Ammaniti

Da sempre bambini e adolescenti sono stati testimoni silenziosi e terrorizzati per le violenze degli adulti, senza riuscire a darsi delle risposte per quello che succedeva intorno a loro. Anche per molti bambini e ragazzi, che si erano recati pieni di entusiasmo e di eccitazione al grande concerto di Ariana Grande, è sicuramente difficile trovare un senso per quello che è successo, un odio cieco nei confronti della vita, quasi impossibile da spiegare. Ma anche molti genitori si chiederanno come affrontare con i propri figli le notizie che giungono da Manchester: nasconderle per non turbarli oppure non chiudere gli occhi e trovare le parole per far capire loro il dramma che è avvenuto? 

La risposta è quasi d’obbligo, è inevitabile che i genitori ne parlino con i figli anche perché le immagini del concerto di Manchester rimbalzano da un telegiornale all’altro e le prime pagine dei giornali ne mostrano le foto. Non è la prima volta che ci troviamo di fronte ad eccidi e violenze che vengono diffusi con una insistenza quasi ossessiva dalla televisione. Quando ci fu la strage di Oklahoma City nel 1995 in cui morirono più di 100 persone, le televisioni locali seguirono in diretta 24 ore su 24 tutte le fasi della tragedia e dei soccorsi. Gli abitanti della città, compresi i bambini, seguirono impietriti per ore ed ore le immagini martellanti dell’eccidio. E quali furono le conseguenze di questa esposizione mediatica?

Nei mesi successivi molti bambini che erano rimasti incollati alla televisione presentavano incubi notturni, stati di ansia e di paura e addirittura sintomi post-traumatici da stress, in modo simile ai bambini che avevano perduto un familiare nell’eccidio. Queste osservazioni ci fanno capire che non solo i bambini che hanno subito direttamente la tragedia, ma anche quelli che l’hanno seguita in televisione possono andare incontro a disturbi di ansia che compaiono e perdurano nei mesi successivi, rendendo difficile il ritorno ad una vita più tranquilla. Ma queste ricerche si sono limitate a indagare lo stato psicologico dei bambini senza prendere in considerazione l’influenza dei genitori durante le trasmissioni televisive.

Ma chiediamoci oggi: che cosa devono fare i genitori di fronte alle notizie e alle immagini di Manchester? In primo luogo occorre evitare che bambini, ma anche adolescenti, divengano preda di queste immagini che suscitano una curiosità morbosa, quando ad esempio si assiste alla fuga di ragazzi terrorizzati che si lanciano dalle scalinate e dai palchi dell’Arena per sfuggire al pericolo. È inevitabile che queste scene siano fonte di stress e che attivino forti reazioni emotive difficili da controllare.

I genitori, oltre a spegnere il televisore quando ci sono i notiziari, dovrebbero spiegare ai figli che guardare queste scene può generare paura e tensione e che è meglio che siano il padre o la madre a spiegare loro quello che è successo, funzionando come un filtro che selezioni le informazioni trovando poi le giuste parole. Può essere difficile rispondere alla domanda dei figli, spiegare chi sono i terroristi che hanno colpito i ragazzi e i bambini durante il concerto e perché si sono comportati così. Le risposte devono evidentemente tenere conto dell’età dei bambini e dei ragazzi, mettendo in luce che a volte ci sono delle persone che sono arrabbiate e che odiano gli altri, perché non sopportano come noi viviamo e come noi pensiamo. Per essere più convincenti si può far riferimento a quelle che succede in gruppo fra bambini: a volte un bambino è arrabbiato con i compagni, perché è scontento di sé ed è geloso di quello che fanno i compagni per cui vuole guastare i loro giochi.

Questo succede anche fra i grandi, soprattutto quando persone arrabbiate e risentite si mettono insieme e decidono di vendicarsi degli altri, ricorrendo anche alla violenza. Dopo questa spiegazione può essere utile che i genitori tranquillizzino i figli, per fortuna ci sono i familiari che fanno attenzione e li proteggono da questi pericoli. E i genitori non sono soli a proteggerli, ci sono anche i soldati e i poliziotti che fanno la guardia per evitare che i terroristi riescano nei loro propositi. Nell’affrontare questo argomento è utile iniziare un dialogo con i figli, cercando di rispondere alle loro preoccupazioni e dando spiegazioni semplici che corrispondano al loro livello di comprensione: solo in adolescenza si possono affrontare argomenti più complessi che chiariscano meglio le radici del terrorismo.

Ed è evidente che il dialogo proseguirà anche nei giorni successivi, perché è abbastanza tipico che i bambini assorbano quello che gli viene detto e ne riparlino nei giorni successivi. Occorre imparare a convivere col terrorismo senza farci sopraffare e paralizzare dalla paura, perché avrebbe conseguenze nefaste sullo sviluppo psicologico dei bambini e degli adolescenti che rischierebbero di vivere sentendosi assediati dalle minacce e dai pericoli. Non vanno sottaciuti i problemi, ma la rassicurazione è fondamentale.

Non dimentichiamo che la specie umana è riuscita nel corso della sua storia a sopravvivere ai predatori e ai nemici che volevano distruggerla, anche se oggi ci si trova di fronte a nemici insidiosi che vivono nelle nostre stesse città. Qualche parola, infine, su quello che può fare la scuola. Gli insegnanti possono senz’altro aiutare gli alunni ricostruendo la storia umana per far comprendere come siano stati affrontati pericoli e minacce che venivano da altri popoli, mostrando come si sia riusciti a sconfiggerli quando la paura non ha preso il sopravvento.

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Salviamo i bimbi dal rancore (La sfida di resistere alla rabbia, a partire dalla scuola)
di Eraldo Affinati

I bambini e gli adolescenti caduti come fantocci accanto ai loro genitori nell’arena di Manchester sfondano le nostre difese psicologiche, al punto che vorremmo immaginarli chissà dove a riscuotere un sacrosanto risarcimento. Ma il Paradiso e l’Inferno, fino a prova contraria, sono qui, fuori e dentro di noi: dipendono dalle scelte che facciamo giorno per giorno, ora per ora, nei luoghi in cui viviamo, al cospetto delle persone che incontriamo. I vecchi maestri avevano ideato espressioni specifiche per illustrare queste azioni di discernimento: responsabilità e libero arbitrio, parole troppo grosse che oggi quasi non possiamo più pronunciare perché consunte dall’uso improprio che ne è stato fatto.

Penso a un piccolo scolaro tunisino venuto a Roma col quale mi piaceva giocare a calcio nei pressi della comunità educativa in cui era ospite. Una volta il pallone finì sulle scale della chiesetta adiacente e lui, dopo averlo ripreso, scappò via a gambe levate. Gli chiesi cosa lo avesse spaventato. Con rapidi gesti eloquenti mi rispose che là abitavano i cristiani: per questo si era dato alla fuga. A quel frugoletto qualcuno aveva insegnato l’odio. Ci vollero diversi mesi di scuola, amici, partite e play station per rabbonirlo: fargli capire che il mondo può essere malvagio, sì, ma noi abbiamo le possibilità di contrapporci al rancore, all’invidia, all’arroganza, all’egoismo, all’amarezza e, in ultima analisi, alla solitudine cui è inevitabilmente destinato il vendicatore.

La risposta militare, che non può essere evitata, è sale sulla ferita. La pura e semplice contrapposizione ci costringe all’interno del conflitto mimetico, secondo la classica definizione di René Girard, in un circuito chiuso, interminabile, privo di sbocchi, almeno finché non troviamo il capro espiatorio. Stiamo parlando di zone d’ombra, boschi biologici, cervelli rettili che albergano dentro il nostro animo e tuttavia hanno nome e cognome, sigle e sistemi di potere: non cadono dall’alto ma scaturiscono dal pensiero degli individui spargendo veleno. Mi vengono in mente certi ragazzi albanesi venuti in Italia anche per sfuggire alla faida regolata dal codice del Kanun: alcuni di loro mi hanno raccontato che, se fossero rimasti a casa, avrebbero rischiato la vita ogni giorno.

Chi speculasse su Manchester, usando l’ennesima tragedia come un’arma retorica, si metterebbe sullo stesso piano dei terroristi: questo ormai lo sappiamo. E allora cosa dovremmo fare? Come sottrarci alla catena della violenza senza fine? Diciamo la verità: istintivamente saremmo tutti dalla parte di Renzo che, nel finale dei Promessi sposi, vorrebbe farsi giustizia da solo. A stento Fra Cristoforo lo trattiene. E quando nel lazzaretto degli appestati giungono entrambi al cospetto di Don Rodrigo morente, il religioso, indicando l’antico avversario ridotto allo stremo, dichiara: «Può essere gastigo, può esser misericordia».

Difficile ritrovare in noi la chiarezza interiore che aveva consentito a Lucia di promettere il perdono al Nibbio mentre questi la rapiva, suscitando lo sconcerto del bravo e il tumulto spirituale dell’Innominato. Ci vorrebbe la forza del signor Antoine Leiris, al quale i fondamentalisti parigini uccisero la moglie al Bataclan, che, rivolto ai colpevoli, dichiarò: «Non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete». Dopo l’ennesimo eccidio dovremmo ripartire da lui. Dall’esempio straordinario di quell’uomo ferito. Dalla sua capacità di distinguere. Di non fare di tutta l’erba un fascio. Soltanto se ci riuscissimo potremmo staccare la spina della carica elettrica che, di fronte al sopruso subito, sentiamo come fosse una scossa.

Non dimenticando il male ricevuto, questo no, sarebbe ingiusto oltreché impossibile, bensì dandogli un senso. «Accettare il debito non pagato, accettare di essere e rimanere un debitore insolvente, accettare che ci sia una perdita» ha scritto Paul Ricoeur. Per farlo bisogna ricucire lo strappo che Salman Abedi, il terrorista di Manchester, ha inferto al tessuto connettivo già tanto fragile del Vecchio Continente. Ritrovare, proprio in questo momento critico, la convinzione politica e l’energia vitale che nei giorni scorsi, prima a Barcellona poi a Milano, ha spinto centinaia di migliaia di persone a partecipare alle ultime marce in favore dell’accoglienza nei confronti degli immigrati, rifiutando qualsiasi logica divisiva che, al contrario, ogni colpo inferto dagli attentatori vorrebbe imporci.