Quelle responsabilità che i giganti della Rete non possono evitare

05.11.2016 10:24

A partire dal caso Cantone, la ragazza morta suicida dopo la diffusione di sue immagini sulla rete, Beppe Severgnini affronta sul Corriere della Sera del 5 novembre il tema delicato e complesso del rapporto fra "libertà di espressione" e responsabilità sui contenuti ospitati dai "contenitori" sempre più giganteschi dei social media.

Facebook è un contenitore o il contenuto? Si occupa di telecomunicazioni o diventa comunicazione? È una tech company (come sostiene Mark Zuckerberg) o una media company, con responsabilità non dissimili a quelle di un giornale o di canale televisivo? Facebook preferisce le prime risposte; l’evidenza spinge verso le seconde. Facebook è oggi la più grande media company del Pianeta: organizza, analizza, distribuisce e vende i contenuti di 1,79 miliardi di utenti. Davanti alle difficoltà, non può rinnegare ciò che la fa guadagnare (tanto).

Il caso Cantone
La questione si è posta nuovamente in queste ore, in modo drammatico. Secondo il Tribunale civile di Napoli Nord, Facebook deve rimuovere i link, le prese in giro e gli insulti a Tiziana Cantone, la giovane napoletana morta suicida il 13 settembre, dopo la diffusione di video sessuali (girati per dispetto al fidanzato, spediti a quattro conoscenti, diffusi a sua insaputa). Facebook non è d’accordo. Un portavoce ha dichiarato: «Accogliamo questa decisione perché chiarisce che gli hosting provider non sono tenuti al monitoraggio proattivo dei contenuti». Gli avvocati della famiglia di Tiziana rilanciano: «Facebook ha ora l’obbligo morale di fornire tutti gli elementi utili a individuare le generalità di quelle persone che, nascoste dietro falsi profili, hanno aperto le pagine su cui sono stati caricati quei contenuti diffamatori, tra link, video e commenti offensivi, che hanno contribuito a creare quella gogna mediatica che ha determinato in Tiziana quello stato di prostrazione che l’ha portata alla morte».

La posizione di Facebook
La posizione di Facebook era apparsa chiara in settembre, dopo che i legali della famiglia di Tiziana erano riusciti a ottenere dal giudice «l’immediata cessazione e rimozione di ogni post o pubblicazione contenente immagini o apprezzamenti». Facebook Ireland aveva fatto ricorso. La società lamentava che il giudice avesse disposto un obbligo di rimozione «con espressioni che suggeriscono un dovere di monitoraggio e controllo preventivo, contrario alle norme rilevanti di rango nazionale e comunitario, nonché di impossibile attuazione da parte di Facebook». La società sosteneva di non essere tenuta a rimuovere l’accesso ai contenuti «senza che prima vi fosse un ordine in tal senso emesso dalle autorità competenti, ai sensi dell’articolo 16 del decreto E-Commerce» e spiegava di doversi attenere «al regime di responsabilità limitata previsto per gli hosting provider. Regime che tutela non solo Facebook Ireland, ma anche la libertà di espressione dei propri utenti».

«Libertà d’espressione»
Farsi scudo con «la libertà d’espressione degli utenti» sembra cinico; nascondersi dietro «la responsabilità limitata degli hosting provider» appare surreale. Facebook è ben altro. Nel terzo trimestre 2016 l’utile netto è arrivato a 2,38 miliardi di dollari e i ricavi sono saliti a 7,01 miliardi, in aumento del 56% sullo stesso periodo del 2015. Gli utenti sono aumentati del 16%. Più di un miliardo accede al social attraverso uno smartphone, e gli introiti pubblicitari derivati da questo canale rappresentano l’84% del totale. Come riesce, Facebook, in questa straordinaria impresa, che ha spiazzato tutti i concorrenti? Analizzando i nostri contenuti, e vendendoli. Non può ignorarli, quando diventano scomodi.

Twitter
Facebook non è il solo ad affrontare questo dilemma. Dentro Twitter, per anni, si sono combattute due scuole di pensiero: chi voleva l’assoluta libertà di espressione ed era contrario al controllo; e chi riteneva che i comportamenti aggressivi di non pochi utenti avrebbero reso il social infrequentabile. Hanno vinto i primi, hanno avuto ragione i secondi. La società ha dovuto fare marcia indietro. Twitter, ha scritto in ottobre il fondatore Jack Dorsey, è un «People’s News Network». Una Rete di Notizie della Gente. Non un Tubo Dentro il Quale Passa di Tutto. Ha scritto Christopher Mims sul Wall Street Journal: «Twitter non è più un unicorno ipercresciuto trainato dalla tecnologia. È una media company con base a San Francisco, che dovrebbe essere strutturata, condotta e valutata in quanto tale». Lo stesso discorso, a maggior ragione, deve valere per Facebook, la prima media company del Pianeta.
Il doppio gioco è impossibile; e l’equivoco deve finire. Ci auguriamo non accada nei tribunali d’Europa. Sarebbe bello che il genio di Mark Zuckerberg ci arrivasse da solo.