"Non rovinare la scuola elementare". Alcune doverose riflessioni di Francesco Scrima, Segretario Generale CISL Scuola

07.07.2008 16:17

A volte ritornano ... con la solita supponenza, gli immutati pregiudizi, la pervicace non conoscenza delle cose. Sono quanti - sulla scia del decreto-legge 112/08, che all'articolo 64, comma 4, lettera d, parla di "rimodulazione dell'attuale organizzazione didattica della scuola primaria" - invocano il ritorno alla "maestra unica".

A parte improvvisate esternazioni pedagogiche e stravaganti annotazione parapsicologiche, si torna a considerare la riforma del '90 come frutto di una mera e impropria politica occupazionale. Ristabilire la verità e difendere l'attuale organizzazione di questo segmento del nostro sistema di istruzione che risulta eccellente e tra i primi anche nei confronti internazionali, è un impegno doveroso nei confronti di questa scuola e dei suoi insegnanti, ed è anche un modo per assicurare a tutto il sistema di poter contare su una "scuola di base" di qualità.

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Non rovinare la scuola elementare

di Francesco Scrima

 

La scuola, spazio di progettazione e cantiere di lavoro per il futuro del Paese, è giustamente al centro dell'attenzione e della preoccupazione di quanti hanno, per vocazione o per funzione, una qualche responsabilità sociale.

Così della scuola parlano in molti e da tante cattedre; ogni analisi è utile, ogni idea rispettabile; purché, ovviamente, si parta da conoscenze fondate e dati sicuri.

Non sempre questo avviene e allora i discorsi si fanno approssimativi, confusi, tendenziosi.

E' il caso di molte cose che si stanno dicendo sulla scuola "elementare".

Forse non vale la pena inseguire lo stato d'animo di chi fa della nostalgia l'elemento guida delle sue valutazioni e delle sue proposte, ma se qualcuno auspica il ritorno alla "maestra unica", sostenendo che la ormai consolidata riforma del 1990 è stata solo il frutto di una impropria politica occupazionale, fa pura disinformazione e allora occorre ristabilire alcuni elementi di verità.

Dobbiamo partire da una data e da un testo che molti sembrano non conoscere o aver dimenticato.

L'anno è il 1985, il documento è quello di Programmi Scolastici che, intervenendo su quelli di trent'anni prima, disegnavano nuovi orizzonti culturali, definivano aggiornati obiettivi di apprendimento, reimpostavano, su una seria base epistemologica e metodologico-didattica, tutte le discipline e il piano di studi.

La società, le conoscenze, i bisogni non erano più quelli del 1955 e, già a partire dalla scuola elementare, occorreva dare più istruzione, e darla meglio.

Furono dunque ragioni squisitamente pedagogiche che portarono a segnalare l'esigenza di ampliare il "tempo scuola", portandolo da 24 a 27/30 ore e a superare la figura del docente unico "tuttologo".

La deamicisiana "maestrina dalla penna rossa" ereditata dalla tradizione ottocentesca, certamente cara alla nostra memoria ma decisamente superata dall'evoluzione dei tempi, lasciava così spazio ad un nuovo canone professionale.

Nasceva il cosiddetto "modulo": tre docenti che, lavorando su due classi, si ripartivano gli interventi organizzandoli in "ambiti disciplinari", aggregazione di più "materie" legate da precise affinità.

Si formava il team-docente, un gruppo professionale che, stretto da un rapporto di collaborazione, manteneva e rafforzava quell'impegno educativo che era e restava l'impegno più forte di questa scuola e che ora veniva definito con più precisione e chiarezza in sede di programmazione collegiale.

La riforma ordinamentale del 1990, preceduta da un'ampia e partecipata fase triennale di sperimentazione, si conformò dunque sul più moderno e accreditato pensiero psico-pedagogico e sulle migliori pratiche che la ricerca e l'azione della scuola avevano prodotto.

Dopo cinque anni di effettiva attuazione la riforma fu sottoposta ad un'attenta verifica parlamentare, voluta dallo stesso Legislatore, seguita da quella altrettanto occhiuta della Corte dei Conti.

Una verifica tecnica e politica, l'unica ad oggi, che sia fatta su una qualsiasi delle riforme del nostro sistema scolastico.

L'esame fu brillantemente superato, si confermò l'impianto fondamentale, si sciolsero alcune rigidità che erano apparse quali ad esempio l'eccessiva frammentazione dei tempi destinati a ciascuna disciplina all'interno dell'ambito, si risolsero alcune problematicità quali ad esempio il modulo verticale di quattro docenti su tre classi.

Ne sortì un'organizzazione più flessibile ed efficace che ha innalzato la qualità dell'offerta formativa e che ha fatto di questa scuola un modello funzionale capace di "reggere" e di adattarsi a tutte le successive innovazioni ordinamentali, sia di natura amministrativa che didattica - prima fra tutte l'autonomia - di cui ha anticipato, istituzionalmente e professionalmente, criteri e modalità gestionali.

Non è dunque un caso, ma viene da questa storia, il fatto che ora la scuola primaria occupi un posto di assoluta eccellenza nelle classifiche internazionali e che, insieme alla scuola dell'infanzia, non faccia arrossire i ministri del nostro Paese nel confronto internazionale tra i diversi sistemi formativi.

Quale irrefrenabile pulsione spinge ora taluni incauti e disinformati maitres à penser a vagheggiare tanto nostalgici quanto improbabili sprofondamenti nel passato?

Non farebbe conto curarsene se alcuni non ravvisassero un tale proposito "revisionistico" anche nei provvedimenti preannunciati dal decreto-legge 112/08 (Finanziaria) che all'art. 64, per il contenimento della spesa in materia di organizzazione scolastica indica una non meglio definita "rimodulazione" dell'attuale organizzazione didattica della scuola primaria, "anche modificando le disposizioni legislative vigenti".

Andare in questa direzione non sarebbe solo fare un'operazione antiriformistica, sarebbe minare alla base ogni altra possibilità di migliorare complessivamente tutto il nostro sistema pubblico di istruzione.

All'atto della definitiva approvazione della legge 148/90, quella che introdusse la riforma di cui stiamo parlando, venne utilizzata la metafora del "ceppo antico" su cui si innestavano nuovi e vitali innesti.

Quegli innesti fanno ormai corpo unico del ceppo; tagliarli sarebbe far morire il ceppo.

Francesco Scrima, Segretario Generale CISL Scuola