agosto 2020

In questa pagina:
Il Punto: Tra lavoro in sicurezza e insicurezza del lavoro (Maddalena Gissi)
La pianta del mese: Dactylorhiza elata (Eva Kaiser - Flavia Milone)
Il Cantico: Prendersi cura del Creato (Luigina Mortari)
Le fonti: Francesco e la cura del creato (Mario Bertin)
Il filo dei mesi: Agosto, meditare su una foglia di alchemilla (Gianni Gasparini)
Aforismi: Quod bonum, felix faustumque sit (Leonarda Tola)
Hombre vertical: Parole, rose, farfalle (Emidio Pichelan)
Note musicali: Johann Sebastian Bach, Magnificat BWV 243 (Francesco Ottonello)
Scrivici, se vuoi, al seguente indirizzo: redazione.scuola@cisl.it
Scarica la pagina in PDF

IL PUNTO

di Maddalena Gissi

Tra lavoro in sicurezza e insicurezza del lavoro

Si chiude con questo numero in piena estate l’esperimento che abbiamo messo in atto nell’anno in corso, facendo degli approfondimenti mensili dell’Agenda CISL Scuola un vero e proprio periodico on line, con le sue rubriche fisse, con l’apporto di tanti e tanto qualificati contributi, con un filo conduttore tracciato dall’agenda cartacea ma variamente ampliato e sviluppato. A me è toccato, per ogni mese, fare il punto sui temi di natura politico sindacale di più immediata attualità, segnati in avvio d’anno scolastico da incognite e attese legate all’insediamento del governo Conte 2, con un nuovo ministro dell’istruzione chiamato fra l’altro a riprendere i fili di una difficile trattativa su reclutamento e precariato e dimessosi pochi mesi dopo, in polemica con l’Esecutivo di cui aveva fatto parte, reo di non aver esaudito la sua richiesta di un sostanzioso stanziamento di risorse per il settore dell’istruzione e della ricerca. Da marzo, l’esplodere della pandemia da coronavirus ha fatto irruzione nelle nostre vite ed è inevitabilmente divenuta il tema obbligato anche delle mie riflessioni, con particolare riguardo, naturalmente, al suo impatto sconvolgente sull’organizzazione delle attività scolastiche e dunque del nostro lavoro, costretto a reinventarsi nell’inedito scenario di un prolungato lockdown. Sono stati mesi difficilissimi, segnati anche dalla durezza del confronto su temi che erano stati oggetto in precedenza di lunghe discussioni e sofferte intese, il cui stravolgimento ha reso peraltro inevitabile la proclamazione di uno sciopero ai primi di giugno. Nel frattempo è diventato sempre più centrale il tema di come tornare in sicurezza, col nuovo anno scolastico, all’attività didattica in presenza: questione che mentre scrivo queste note è tutt’altro che risolta, nonostante manchi ormai solo un mese a tale scadenza, e solo un mese e mezzo al previsto ritorno generalizzato di alunne e alunni nelle loro aule. Chi ci legge potrà seguire gli sviluppi della situazione attraverso i resoconti che giorno per giorno ne faremo sui nostri canali di informazione. Ma avverto il bisogno, e anche il dovere, mentre prosegue il massimo impegno per ottenere le condizioni di un rientro sicuro al lavoro in presenza, di richiamare qui l’attenzione di tutti su quella parte del mondo della scuola che rischia di subire in modo particolarmente pesante gli effetti prodotti dalla pandemia: persone per le quali il problema non è tornare al lavoro in sicurezza, ma molto più drammaticamente non perdere il proprio lavoro. Parlo della scuola non statale, settore in cui si contano a centinaia situazioni di crisi per le quali si fatica a intravedere una via d’uscita.

Capita talvolta, purtroppo anche in ambito sindacale, che si parli di scuole paritarie e non di lavoratori delle scuole paritarie, centrando l’attenzione sull’impresa educativa e scolastica in quanto tale, e non su chi in tale impresa lavora. Viene da chiedersi il perché, ed è una domanda alla quale si stenta a trovare una risposta convincente, o con qualche parvenza di logicità. Può sembrare scontato che un sindacato debba occuparsi dei lavoratori e in particolare di quelli che vivono la loro esperienza in un perenne stato di precarietà e di incertezza. Non mi sono mai ricreduta su questo, anzi, sono sempre più convinta che sia questa la missione alla quale ho dedicato buona parte della mia esistenza. Perciò affermo che non mi interessa fare la guerra alle imprese educative e scolastiche private, né mi interessa disquisire sulla legittimità costituzionale o meno delle poche risorse che arrivano alle scuole paritarie o a quelle educative, lascio che siano altri a combattere una guerra, ideologica ed economica, che colpisce in fondo e soprattutto i lavoratori. In questi tempi così difficili e pericolosi, tanti giovani, soprattutto giovani donne impegnate nelle strutture educative 0-6 anni, sono rimasti senza retribuzione e senza ammortizzatori sociali. I nidi e le scuole non pagano le retribuzioni, perché non ricevono le rette. Gli ammortizzatori sociali, il FIS o la Cassa Integrazione in Deroga, non coprono l’intero periodo della sospensione delle attività e non sempre sono compatibili con le risorse provenienti dalle convenzioni con i Comuni che, a loro volta, nel dubbio hanno cessato di erogare in attesa di tempi migliori. Non c’è neppure la possibilità – per quanto sia paradossale chiamarla così! – del licenziamento per accedere alla Naspi.

Insomma, i lavoratori dell’istruzione non statale, dei nidi, delle scuole e della formazione professionale, sono quelli che, più di altri, devono pagare un tributo altissimo in termini occupazionali e reddituali. E questo perché la loro protesta è appena percettibile, perché la paura di perdere il lavoro, già di per sé precario, strozza la voce e qualsiasi iniziativa. Il loro è un urlo muto come quello di Eduard Munch. Se il Governo non ascolterà la voce della Cisl e della Cisl Scuola, che per prima si è alzata forte e chiara a difesa dei più deboli, il rischio di far affogare migliaia e migliaia di famiglie nel mare della disoccupazione e della disperazione diverrà a settembre una triste, tristissima realtà.

LA PIANTA DI COPERTINA

Disegno di Eva Kaiser
Testo di Flavia Milone

Dactylorhiza elata

La Dactylorhiza elata è una pianta appartenente alla famiglia delle Orchidaceae, è considerata tra le orchidee la più rara e la più minacciata. È una pianta alta, con fusto cavo e fistuloso, le foglie sono in numero variabile da 6 a 14, l’infiorescenza è inizialmente conica, poi cilindrica a fioritura completa, densa, composta da numerosi fiori (max 60). I fiori sono di colore variabile da rosa a lilacino, più chiaro alla base del labello.

È una pianta il cui organo perennante è un bulbo da cui, ogni anno, nascono fiori e foglie. Il nome generico Dactylorhiza è formato da due parole greche traducibili come “dito” e “radice” e si riferisce ai suoi tuberi suddivisi in diversi tubercoli (tuberi a forma digito-palmata). La prima parte del nome specifico (elata) deriva dal latino (“elatus”) e indica una pianta alta. Mentre il secondo nome specifico (sesquipedalis) precisa l'altezza: un piede e mezzo (circa 50 cm).

Il binomio scientifico di questa pianta inizialmente era Orchis sesquipedalis, proposto dal botanico, farmacista e micologo tedesco Carl Ludwig Willdenow (1765-1812) in una pubblicazione del 1805, perfezionato successivamente in quello attualmente accettato (Dactylorhiza elata subsp. sesquipedalis), proposto dal botanico ungherese Soó (1903-1980) nel 1962.

La D. elata è una geofita bulbosa il cui periodo di fioritura è compreso tra la metà di maggio e la metà di luglio, la fruttificazione va da fine luglio a tutto agosto. La biologia riproduttiva di questa specie, ad oggi, non è stata sufficientemente investigata, non si conoscono le modalità di dispersione e non si hanno informazioni sulla effettiva vitalità e capacità germinativa dei semi. Si distribuisce prevalentemente lungo le coste atlantiche e mediterranee, ma con ampie penetrazioni nell'entroterra, tanto da vegetare anche sulle sponde di torrenti a 800 m di altitudine. La principale minaccia osservata è rappresentata dalla continua raccolta indiscriminata ad opera di appassionati, collezionisti e ricercatori.

IL CANTICO

Prendersi cura del Creato

di Luigina Mortari

I rapporto del mondo umano con la natura è in una profonda crisi, ormai da molto, troppo tempo. Eppure la vita prosegue a ritmi antiecologici. È indispensabile un’interpretazione e una visione nuova del vivere.

La civiltà occidentale si è fondata su un'antropologia della padronanza. L'uomo occidentale da sempre si è situato non nella natura, ma in cima alla natura e, anche, al di fuori. Questa visione a-ecologica della vita, in quanto considera la realtà umana diversa da quella della natura, si fonda su una concezione dell'essenza dell'umano come essere spirituale.

Ma l'essere umano non è solo questo, è anche corpo. Anche se pensiamo la nostra essenza in modo spiritale, in quanto dotati di anima, siamo esseri corporei. Come dice Edith Stein, la vita spirituale è immersa nella vita materiale. Questa parte materiale del nostro essere è quella che ci tiene intimamente legati alla terra, perché di aria e di acqua, di terra e di luce noi ci nutriamo. Siamo piante con i rami tesi verso l'alto ma radicate nella terra. Quando allora pensiamo il nostro esserci come cura della vita, non possiamo intenderla solo come cura del mondo umano, ma anche come un prendersi cura della natura.

Per dire natura nel greco antico si diceva physis, termine che indicava non solo l'insieme delle cose che strutturano il tessuto della vita ma l'energia vitale che attraversa la realtà e genera continuamente forme nuove. La phisis non è altro da noi, ma noi siamo uno dei fogli dell'essere della natura. Di una nuova etica dunque c'è assoluta necessità, quella che possa fare da orizzonte a un agire economico e politico finalmente in armonia con il creato.

LE FONTI

di Mario Bertin

Francesco e la cura del creato

Sul rapporto dell'uomo con la natura secondo la visione di san Francesco abbiamo già proposto un'ampia documentazione a corredo delle riflessioni precedenti sul "Cantico di frate Sole". L'aspetto che ora ci interessa mettere in luce è come si configura nel pensiero francescano la convivenza dell'uomo con il resto del creato. Essa si fonda sul legame di fratellanza che accomuna tutte le creature tra loro (animate e inanimate) e sul rifiuto di ogni rapporto di sudditanza e di padronanza. La vita del frate, secondo Francesco, non si svolge nel chiuso di edifici costruiti dall'uomo o secondo regole imposte dal di fuori, ma libera nel cuore della natura (sulla "strada") in forma di interdipendenza, di ascolto e di dialogo. La perfezione consiste nel vivere fino in fondo secondo quello che si è e avendo cura che a tutti questo sia garantito.

Amore di san Francesco per le creature sensibili e insensibili

In ogni opera [Francesco] loda l'Artefice; tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore. Esulta di gioia in tutte le opere delle mani del Signore, e attraverso questa visione letificante intuisce la causa e la ragione che le vivifica. Nelle cose belle riconosce la Bellezza Somma, e da tutto ciò che per lui è buono sale un grido: «Chi ci ha creati è infinitamente buono». Attraverso le orme impresse nella natura segue ovunque il Diletto.
Abbraccia tutti gli esseri creati con un amore e una devozione quale non si è mai udita, parlando loro del Signore ed esortandoli alla sua lode. Ha riguardo per le lucerne, lampade e candele, e non vuole spegnerne di sua mano lo splendore, simbolo della Luce eterna. Cammina con riverenza sulle pietre, per riguardo a colui, che è detto Pietra.
[...]

Quando i frati tagliano legna, proibisce loro di recidere del tutto l'albero, perché possa gettare nuovi germogli. E ordina che l'ortolano lasci incolti i confini attorno all'orto, affinché a suo tempo il verde delle erbe e lo splendore dei fiori cantino quanto è bello il Padre di tutto il creato. Vuole pure che nell'orto un'aiuola sia riservata alle erbe odorose e che producono fiori.
[...]

Raccoglie perfino dalla strada i piccoli vermi, perché non siano calpestati, e alle api vuole che si somministri del miele e ottimo vino, affinché non muoiano di inedia nel rigore dell'inverno. Chiama col nome di fratello tutti gli animali, quantunque in ogni specie prediliga quelli mansueti. Ma chi potrebbe esporre ogni cosa? Quella Bontà «fontale», che un giorno sarà tutto in tutti, a questo Santo appariva chiaramente fin d'allora come il tutto in tutte le cose.

(Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d’Assisi, 165)

Come santo Francesco e frate Masseo il pane ch' aveano accattato
puosono in su una pietra allato a una fonte, e santo Francesco lodò molto la povertà.

Frate Francesco e frate Masseo avevano preso il cammino verso la provincia di Francia. E pervenendo un dì a una villa assai affamati, andarono, secondo la Regola, mendicando del pane per l’amore di Dio; e santo Francesco andò per una contrada, e frate Masseo per un' altra. Ma imperò che santo Francesco era uomo troppo disprezzato e piccolo di corpo, e perciò era riputato un vile poverello da chi non lo conosceva, non accattò se non parecchi bocconi e pezzuoli di pane secco; ma frate Masseo, imperò che era uomo grande e bello del corpo, sì gli furono dati buoni pezzi e grandi e assai e del pane intero.
Accattato ch' egli ebbono, sì si raccolsono insieme fuori della villa in uno luogo per mangiare, dov'era una bella fonte, e allato avea una bella pietra larga, sopra la quale ciascuno puose tutte le limosine ch'avea accattate. E vedendo santo Francesco che li pezzi del pane di frate Masseo erano più e più belli e più grandi che li suoi, fece grandissima allegrezza e disse così: «O frate Masseo, noi non siamo degni di così grande tesoro». E ripetendo queste parole più volte, rispose frate Masseo: «Padre, come si può chiamare tesoro, dov'è tanta povertà e mancamento di quelle cose che bisognano? Qui non è tovaglia, né coltello, né taglieri, né scodelle, né casa, né mensa, né fante, né fancella». Disse santo Francesco: «E questo è quello che io riputo grande tesoro, dove non è cosa veruna apparecchiata per industria umana; ma ciò che ci è, è apparecchiato dalla provvidenza divina, siccome si vede manifestamente nel pane accattato, nella mensa della pietra così bella, e nella fonte così chiara. E però io voglio che'l tesoro della santa povertà così nobile, il quale ha per servidore Iddio, ci faccia amare con tutto il cuore». E dette queste parole, e fatta orazione e presa la refezione corporale di questi pezzi del pane e di quella acqua, si levarono per camminare in Francia.

(I Fioretti di san Francesco, cap. XIII)

Il convito della Povertà con i frati

E scendendo dal monte, condussero madonna Povertà nel luogo dove abitavano; era infatti verso mezzogiorno.
Preparata ogni cosa, la invitarono con insistenza a prendere cibo con loro. Ma ella disse: «Mostratemi prima il luogo della preghiera, il capitolo, il chiostro, il refettorio, la cucina, il dormitorio e, la stalla, i bei sedili, le mense levigate e la vostra grande casa. Di tutto questo in verità non vedo assolutamente nulla, ma vedo che voi siete allegri, giocondi, colmi di gioia, pieni di consolazione, come se foste in attesa di avere ogni cosa ad un semplice cenno».
Ed essi le risposero: «Nostra signora e regina, noi tuoi servi siamo stanchi del lungo viaggio, e tu stessa venendo con noi hai faticato non poco. Perciò, se sei d'accordo, per prima cosa mangeremo, poi, ristorati dal cibo, a un tuo cenno si farà ogni cosa».
«Approvo quanto dite», rispose; «e allora portate dell'acqua per lavare le nostre mani e asciugatoi per asciugarle». E immediatamente quelli portarono un vaso di terracotta ridotto a metà — lì un vaso intero non c'era —, pieno d'acqua. Poi, abbassando le mani, guardavano di qua e di là, in cerca di un asciugatoio: e non trovandolo, uno di loro le offrì la tunica di cui era vestito, perché potesse asciugarsi le mani. Ed ella l'accolse con gratitudine, e nel suo cuore magnificava Dio, che l'aveva data come compagna a uomini di tanta virtù.
Poi la condussero al luogo dove era preparata la mensa. Come fu arrivata ella si guardò attorno, e non vedendo nulla all'infuori di tre o quattro tozzi di pane d'orzo e di crusca posti sull'erba, fu presa da grande ammirazione e diceva dentro di sé: «Chi mai ha visto cose come queste tra le generazioni passate? Benedetto sei tu, Signore Dio, che hai cura di tutte le cose; tutto è possibile a te, quando vuoi; con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo a piacere a te». E così tutti sedettero insieme rendendo grazie a Dio per tutti i suoi doni.
Madonna Povertà diede ordine di servire i cibi cotti nei piatti. Ed ecco fu portata una sola scodella piena d'acqua fresca, perché tutti vi intingessero il pane: lì non c'era abbondanza di scodelle né varietà di vivande cotte.
Chiese le fossero servite almeno delle erbe aromatiche crude. Ma non avendo ortolano e non sapendo di orto, raccolsero nel bosco delle erbe selvatiche e gliele posero davanti.
E madonna Povertà: «Portatemi un po' di sale per salare le erbe, perché sono amare».
«Signora», le risposero, «aspetta che andiamo in città e te lo portiamo, se qualcuno vorrà darcene».
«Datemi un coltello», disse lei, «per mondarle del superfluo e per tagliare il pane che è molto duro e secco».
Le rispondono: «Signora, non abbiamo fabbro ferraio che prepari per noi delle spade; per ora al posto del coltello usa i denti, e poi provvederemo».
«E un po' di vino, ce l'avete?» chiese ancora.
Risposero: «Signora nostra, vino non ne abbiamo, perché indispensabili alla vita dell'uomo sono il pane e l'acqua, e non è bene che tu beva vino, perché la sposa di Cristo deve fuggire il vino come fosse veleno».
E quando della gloria di tanta penuria si furono saziati più che se avessero avuto abbondanza di ogni cosa, innalzarono lodi al Signore, al cui cospetto avevano trovato tanta grazia, e condussero la Povertà al luogo del riposo, perché era stanca. E così si adagiò ignuda sopra la nuda terra.
Chiese inoltre un guanciale per il suo capo. E quelli subito portarono una pietra e la posero sotto il capo di lei.
Ed ella, dopo un sonno placidissimo e non appesantito da cibo né da bevanda, si alzò alacremente, chiedendo che le fosse mostrato il chiostro. La condussero su di un colle e le mostrarono tutt'intorno la terra fin dove giungeva lo sguardo, dicendo: «Questo, signora, è il nostro chiostro.

(Sacrum Commercium Sancti Francisci cum Domina Paupertate, 58-63)

A ciascuno doveva essere lasciata la possibilità di vivere secondo la propria natura

Mentre un giorno il beato Francesco attraversava, su di una piccola barca, il lago di Rieti, diretto verso l'eremo di Greccio, un pescatore gli offrì un uccello fluviale, con cui rallegrarsi davanti al Signore. Il beato padre lo prese con gioia e lo invitò con dolcezza a volar via liberamente. Esso non voleva andarsene e si rannicchiava come in un nido nelle sue mani; il Santo allora, alzati gli occhi al cielo, rimase a lungo in preghiera. Dopo una lunga pausa, come ritornato in sé da un'estasi, comandò dolcemente all'uccello di ritornare senza timore alla libertà di prima. Ricevuto dunque il permesso con la sua benedizione, lietamente, con un battito d'ali l'uccello volò via liberamente.
Un'altra volta, sullo stesso lago, viaggiando su una barchetta, giunse al porto, dove gli fu offerto un grosso pesce ancor vivo. Chiamandolo egli con il nome di fratello, secondo la sua usanza, lo rimise in acqua vicino alla barca. Ma il pesce giocherellava in acqua presso il Santo, che con gioia lodava Cristo Signore. Il pesce non si allontanò da quel posto, fino a che non gli fu ordinato dal Santo.

(Tommaso da Celano, Trattato dei miracoli di san Francesco d'Assisi, 23-24)

IL FILO DEI MESI

Agosto, meditare su una foglia di alchemilla

di Gianni Gasparini

Ai margini del villaggio di montagna, a millesettecento metri di altezza, si celebra una messa all’aperto. Il soffitto è il cielo, il pavimento un prato alpino di erbe.

Osservo attentamente una piccolissima foglia di alchemilla. Si tratta di una pianta singolare, che con la larga foglia palmata e incisa in lobi accoglie la rugiada. Nessuna altra foglia o pianta del prato lo sa fare meglio. La mia fogliolina di alchemilla porta appunto, alla confluenza di due articolazioni, una goccia quasi impercettibile di rugiada.

Mi concentro su questo vegetale che ho di fronte, un essere vivente nato dalla terra accanto a miriadi di altri e proteso dalla sua altezza microscopica verso il cielo. Cerco di coglierne il senso, il significato, l’“io sono”.

Concentrarsi su un’erba del prato perché essa reca in sé il tutto, l’intero universo, in nuce e in scala minima.Concentrarsi senza pensare ad altro e senza farsi distrarre da nulla, come dicono i maestri di meditazione. Concentrarsi per cambiare noi stessi: un essere trascurabile, che pochi individuano nella sua specificità, mi può cambiare, può mutare la mia percezione della natura, della terra, delle relazioni tra gli esseri.

Questa, quanto meno, è la speranza: un briciolo di speranza esile quanto un filo d’erba, quanto una foglia di alchemilla del prato.

(da Au jour le jour – Riflessioni per il filo dei giorni, Cerbara – Città di Castello (PG), 2018)

AFORISMI

di Leonarda Tola

L’aforisma scelto per questo mese, che rappresenta un augurio per l’avvio del prossimo anno scolastico, è la parte iniziale di un articolo che comparirà, intero, nel prossimo numero di Scuola e Formazione.

Quod bonum, felix faustumque sit

Che la cosa vada bene, in modo felice e con fortuna”, per dirla con l’espressione latina presente, con qualche variazione, presso innumerevoli autori e lungo i secoli. “Quod bonum, felix faustumque sit”.

C’è un luogo, una realtà umana e sociale che, in questa estate inaspettatamente benigna dopo la primavera pandemica, deve fare voti e innalzare preghiere al cielo: questo luogo è la scuola italiana, il complesso mondo dell’istruzione e dell’educazione che deve ripartire a settembre.

La condizione della ripresa regolare del buon funzionamento dell’istituzione scolastica, in ogni ordine e grado, è la sfida ineludibile con cui oggi si misura la credibilità di una classe dirigente in una società democratica. Senza enfasi diciamo che in gioco è la tenuta stessa dello Stato.

HOMBRE VERTICAL

di Emidio Pichelan

Parole, rose, farfalle

Senza dubbio, perché personaggio di ere geologiche trapassate, Confucio suggeriva una prudente cautela nel parlare, ancor più se al parlante capitava di occupare un ruolo di potere: “Sii molto cauto nel parlare perché non abbia a vergognarti se le tue azioni non sono state poi all’altezza dei tuoi discorsi”.
Forse perché uomo di potere ultracontemporaneo e, dunque, iperconnesso animale da social, il presidente USA non ci pensa proprio a controllare parole, espressioni, caratteri, punti esclamativi, maiuscole e minuscole degli oltre 11mila messaggi scritti e inviati ai milioni di followers nei primi 34 mesi di governo (gennaio 2017-novembre 2019).
Le parole non sono affatto flatus vocis, un suono destinato a disperdersi nell’aria o nel ventre molle delle onde elettromagnetiche. Anzitutto, perché definiscono chi le pronuncia – l’hater di professione od occasionale nell’insultare e disprezzare dice molto di sé – e un’intera epoca storica. Sono nobili e hanno potere: scolpiscono e incidono, confortano o deprimono, umanizzano la vita o la deridono, la corrompono o la sanificano, scatenano la guerra o costruiscono la pace. Rappresentano la più evidente espressione della diversità dell’essere umano rispetto a ogni altra singola presenza in cielo, terra, acqua. Hanno il potere di seminare paure e orrori come di generare bellezza, armonia, rispetto per il creato. Come annotato magistralmente dall’amato Elias Canetti. “Se fossi davvero uno scrittore, dovrei essere in grado di impedire la guerra … Alla situazione che ha poi reso la guerra davvero inevitabile si è arrivato per mezzo di parole, parole su parole usate a sproposito. Se così grande è il potere delle parole, perché esse non dovrebbero essere in grado di impedire la guerra?”
Se Canetti non sopravvaluta il potere delle parole, allora il dilemma impossibile di Han Jonas trova una soluzione plausibile: “Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma”. Auschwitz è un orrore, che ancora troppi si ostinano a negare, un unicum (per ora, per fortuna) nella storia. Ma è pur sempre e solo vicenda umana, prodotta da umani che come noi usavano parole umane. Non è la prima volta che “i figli delle tenebre” prevaricano sui “figli della luce” – con qualche demerito di questi ultimi.
In quanto attività umana, il linguaggio esprime compiutamente le specificità delle varie fasi storiche. Più delle statue rimesse – ingiustamente – in discussione da sensibilità contemporanee legittime ma claudicanti in storia per eccesso di “presentismo” (teoria che induce i seguaci a pensare di sapere tutto, comprendere tutto, giudicare tutto perché il loro parametro valutativo non ammette contraddittorio; convinti, soprattutto, che la storia inizi con loro). Ogni fase storica deve affrontare una sfida, che necessariamente parte dalla scuola. Da dove, cioè, si gioca il futuro. E’ doveroso allora che la scuola non abbandoni mai le parole di libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia, tolleranza, pace, speranza, felicità. Parole “costituzionali” e di buona letteratura. E di speranza.

Ti vedo, rosa, libro socchiuso
che la gioia racconti
in tante pagine che non leggeranno. Magico libro

spalanca al vento, che occhi
chiusi léggere potranno …
da te le farfalle escono confuse
per avervi pensato uguali idee.

(E. M. Rilke)

Sarò romantico, ma vuoi mettere questa poesia dove i petali della rosa, le pagine e le righe e le parole di un libro e le farfalle colorate e ariose volteggiano nel mondo magico della gioia e della bellezza con le faccette standardizzate degli emoticon e il via vai frenetico, compulsivo dei messaggini e dei selfie?

NOTE MUSICALI

di Francesco Ottonello

Johann Sebastian Bach (1685 - 1750): Magnificat (BWV243)

La forma del Magnificat è quella con cui, anche in musica, si designa il Canticum Mariae, uno dei tre cantici principali (o cantica majora), il cui testo è tratto dal Vangelo di Luca e dunque dal Nuovo Testamento. Nonostante essa sia una forma particolarmente cara alla liturgia cattolica romana, fu apprezzata anche in ambito luterano e pertanto entrò con favore anche in quella ritualità. Così come in ambito cattolico, anche nell’ambiente luterano il Magnificat si cantava per la funzione dei Vespri e in tale occasione veniva intonato anche nell’ambiente liturgico della Lipsia del tempo di Bach. L’idioma con cui si cantava solitamente il Magnificat era il tedesco, ma in concomitanza delle festività solenni si utilizzava il latino.
Bach compose il proprio Magnificat in Latino, scrivendone due versioni: una prima in Mi bemolle maggiore e, successivamente, una seconda in Re maggiore (BWV 243). La differenza più vistosa fra le due versioni sta nel fatto che nella prima il testo sacro è interpolato da quattro canti natalizi, mentre quella successiva segue fedelmente il testo del cantico mariano. Oggi si esegue maggiormente la seconda versione, ossia quella in Re maggiore, la quale non manca di offrire un ulteriore straordinario esempio dell’arte bachiana, nell’ambito della musica sacra.  
L’opera si muove all’insegna di uno dei principi cardine del Barocco musicale che è quello della varietà. In quest’opera, la varietà si trova applicata a vari livelli: nello stile, nell’organico strumentale, nell’alternanza fra canto solistico e canto corale. Una varietà compositiva della quale Bach amava dar prova, unitamente alle altre sue straordinarie doti, ogni volta che si affacciava a un nuovo ambiente musicale, a un nuovo pubblico o ad una nuova committenza. Non è un caso che il Magnificat sia stata una delle prime opere composte da Bach, appena arrivato a Lipsia, poco dopo aver assunto il ruolo di Kantor della chiesa di San Tommaso.

Vai all'ascolto