gennaio 2019

In questa pagina:
l'immagine del mese; la parola del mese (Auto-organizzazione); invito alla lettura; suggestioni a proposito dell'illustrazione del mese; note musicali; "La scuola c'è. La scuola è", i film del calendario CISL Scuola; un brano di prosa e una filastrocca; giornate e ricorrenze particolari (anche per la didattica): 27 gennaio, la memoria per una giornata?
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L'ILLUSTRAZIONE

Anche se l'anno nuovo è iniziato e le giornate si allungano un poco, la natura riposa ancora.

Raccoglie nuove forze in segreto e attende.

Il nostro piccolo riccio già dall'autunno aveva trovato il suo posto per dormire e col suo spesso strato di grasso può starsene buono per cinque mesi.

Mi chiedo solo se può dispiacergli mancare la scoperta del calicanto che sboccia.

Eva Kaiser

Il quinto mese

Gennaio dal latino Januarius mese dedicato a Giano, il dio dai due volti: uno rivolto al passato, l'altro al futuro. Divinità posta a protezione delle porte, dei ponti e, più in generale di tutti i luoghi e le situazioni di passaggio e di cambiamento. Per questo anche del mese che apre l'anno nuovo.

Inizio d’anno: Cronos e Kairòs

Calendario civile, calendario liturgico, calendario zodiacale, calendario solare, lunario cioè calendario basato sul ciclo lunare. Quanti calendari, quante storie, quante suggestioni. Una stratificazione di simboli, riti, tradizioni e valori da esplorare in tutta la sua fantastica con-fusione culturale.

Quando e perché il primo gennaio

Il calendario che normalmente usiamo è quello solare, basato sul ciclo delle stagioni, elaborato dall’astronomo egizio Sosigene di Alessandria e promulgato da Giulio Cesare; da qui il suo nome: Calendario Giuliano.
È il calendario che inizia il primo gennaio e, dal 46 a.C. diventa il calendario ufficiale di Roma e dei suoi domini, estendendosi poi a tutti i Paesi d’Europa e d’America man mano che venivano conquistati dagli europei. Ci si accorse poi che non era esattamente corrispondente all’anno astronomico su cui accumulava ogni anno un piccolo ritardo per cui, con decreto di Papa Gregorio XIII fu corretto nel 1582. Correzione che negli Stati riformati della Germania e dei Paesi Bassi venne introdotta nel 1700 e, in Gran Bretagna, solo nel 1752. Alcune chiese ortodosse, ai fini liturgici, usano ancora il calendario giuliano ed è da qui che deriva il diverso computo per fissare e celebrare il giorno di Pasqua.

I tanti capi d’anno

Il capo d’anno fissato al primo gennaio è comunque legato a diverse tradizioni connesse al solstizio invernale. Ma sono da ricordare altre tradizioni che, fino a qualche secolo fa, hanno caratterizzato forti diversità fra gli Stati Italiani e, addirittura, fra città e città.
A Roma fino a tutto il 1600 e a Firenze fino al 1794 il Capo d’anno cadeva il 25 marzo, festa dell’Annunciazione (e dunque dell’Incarnazione). Così anche in Sicilia per tutto il XVI secolo.
A Milano, fino al 1797, il capo d’anno cadeva il 25 dicembre (Natività). Nella Repubblica di Venezia, per gli atti pubblici ufficiali, l’anno iniziava invece il primo marzo (data di capo d’anno anche nell’antica Roma fino al 191 a.C.). Usanza interrotta con il cadere della Repubblica per mano di Napoleone nello stesso 1797.
A Bari, fino alla stessa epoca, vigeva lo stile bizantino che fissava Capodanno al primo settembre.
Ci siamo riferiti, fino a qui, alla sola tradizione occidentale e cristiana, ma la curiosità e l’interesse dovrebbe e potrebbe portarci anche alla scoperta di altre tradizioni che qui, lo spazio, per ora, ci nega.
Comunque Buon Felice Anno a tutti.

(G.C.)

Proverbi

L’uva di capodanno non portò mai danno.

Tempo chiaro e dolce a Capodanno, assicura bel tempo tutto l'anno.

San Vincenzo l'inverno mette i denti (22 Gennaio)

Gennaio e febbraio, empie o vuota il granaio.

A Gennaio: sotto la neve pane, sotto la pioggia fame.

Gennaio fa il ponte e febbraio lo rompe.

Se gennare è cattive e triste, d'ogni frutte riimpie ie canistre.

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LA PAROLA DEL MESE

AUTO-ORGANIZZAZIONE

di Alberto Felice De Toni

I paesi avanzati stanno vivendo una grande trasformazione economica e sociale sotto la spinta della rivoluzione digitale in essere. L’impetuoso sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sta spostando i confini delle possibilità educative, valorizzando in particolare il ruolo dell’apprendimento informale, in ogni luogo e tempo. Siamo di fronte ad una crescente importanza dell’apprendimento in rete, al diffondersi di esperienze di homeschooling e di ambienti di apprendimento auto-organizzati di grande efficacia educativa.

Questi fenomeni pongono il sistema scuola davanti a sfide inedite. Gli approcci educativi tradizionali non sembrano essere sufficienti per affrontare gli scenari sopra citati. Gli studi sull’evoluzione dei sistemi scolastici evidenziano come il futuro della scuola sia basato da un lato sulla sua autonomia responsabile e sulla sua conseguente capacità di interagire con le comunità vicine e lontane e dall’altro sulla personalizzazione dell’apprendimento.

La rivoluzione digitale, che consente l’apprendimento cognitivo a distanza, non sembra comunque mettere in discussione il ruolo della scuola come luogo fisico per l’acquisizione di competenze trasversali (basate su apprendimento sociale, apprendimento cooperativo ecc.).

In ogni caso i cambiamenti di successo del sistema scolastico emergono dal basso: tutte le esperienze internazionali riuscite lo dimostrano. Il recente libro Scuole Auto-organizzate. Verso ambienti di apprendimento innovativi (Rizzoli Education, 2018) scritto dal sottoscritto insieme a Stefano De Marchi, preside dell’Istituto Canossiano Madonna del Grappa di Treviso, si pone come obiettivo lo studio e la verifica empirica di come si favorisce lo sviluppo di un ambiente di apprendimento innovativo. In particolare si indaga se l’introduzione dell’ambiente di apprendimento sia favorito in alternativa da:

  • approcci top-down, ovvero se il cambiamento debba partire dall’alto del sistema scolastico, con politiche istituzionali che definiscono le condizioni di contesto: le politiche educative, i modelli di governance, il ruolo della leadership, il sistema di reclutamento, le prospettive di carriera ecc.
  • approcci bottom-up, ovvero se il cambiamento debba partire dal basso, puntando sull’innovazione organizzativa e didattica della singola scuola.

Da quello che si è osservato, visitando varie realtà scolastiche italiane, le innovazioni partono generalmente da singole scuole e docenti, da reti di scuole e reti di docenti, da genitori e a volte anche da studenti: la prospettiva dell’auto-organizzazione – nell’alveo della autonomia scolastica – sembra essere una chiave interpretativa efficace dello sviluppo di ambienti di apprendimento innovativi.

La ricerca si è focalizzata sulle capability organizzative che in una scuola si sviluppano per garantire la realizzazione di ambienti di apprendimento innovativi. Il lavoro di ricerca presso 14 scuole analizzate ha messo in evidenza come esista una correlazione positiva tra le capability dell’auto-organizzazione scolastica e l’innovatività degli ambienti di apprendimento. Detto in altre parole, più le scuole sono auto-organizzate e più gli ambienti di apprendimento risultano innovativi.

Gli esiti di questo lavoro si inseriscono nel filone di ricerca delle scienze della complessità e in particolare nell’emergenza dal basso, intesa come processo, e nell’auto-organizzazione, intesa come risultato dell’emergenza stessa. Filone estremamente fecondo per chi si interessa di apprendimento e di sistemi scolastici, come ci indicano le esperienze maturate in vari continenti da Sugata Mitra, noto studioso di ambienti di apprendimento auto-organizzati, i cosiddetti self-organised learning environments. Secondo l’autore “l’educazione è un sistema auto-organizzato dove l’apprendimento è un fenomeno emergente”.

Le sperimentazioni sul campo confermano che l’innovazione funziona se viene generata dal basso ed estesa ad altre scuole. L’esito del lavoro empirico descritto nel testo responsabilizza in primis i docenti, le loro associazioni scientifiche, le loro comunità di pratica, e in seconda battuta le scuole con i loro dirigenti scolastici, le reti di scuole e i loro organi di governo e di coordinamento. Ai vertici scolastici ovvero Ministero dell’Istruzione, Uffici Scolastici Regionali, Uffici Scolastici Territoriali, Ambiti, Agenzie di supporto (Invalsi, Indire ecc.) rimangono i compiti chiave della definizione delle politiche, l’allocazione delle risorse, l’implementazione delle misure di accompagnamento, il sostegno alla creazione di reti, la valutazione degli esiti in uscita ecc.

Le capability tipiche dell’auto-organizzazione (interconnessione, ridondanza, condivisione, riconfigurazione) sono le risorse chiave per offrire agli studenti ambienti di apprendimento efficaci. L’auto-organizzazione non è sinonimo di auto-gestione: è una logica diversa di organizzazione, che si può concretizzare solo in presenza di ben determinate condizioni, la cui ricerca e creazione è compito dei migliori docenti e dei migliori dirigenti scolastici.

Le resistenze all’auto-organizzazione, provengono sia dall’alto che dal basso della piramide organizzativa scolastica.

Le resistenze dall’alto del Ministero derivano dal fatto che la maggiore autonomia – che deve essere garantita a docenti, tecnici e dirigenti che si auto-organizzano per innovare gli ambienti di apprendimento e la scuola – viene vissuta come una riduzione della capacità del Ministero stesso di tenere sotto controllo le attività. L’idea del 1993 di attribuire alle scuole italiane – intese come comunità educanti autonome – una reale autonomia finanziaria non è mai stata attuata. Le scuole dispongono di autonomia organizzativa e didattica, ma non di quella finanziaria. Sono vissute ancora come organi deputati ad attuare sul territorio le politiche dell’amministrazione centrale e pertanto gestiscono solo una dotazione finanziaria costituita dall’assegnazione dello stato per le spese di funzionamento. Essere scuole realmente autonome (sul piano organizzativo, didattico e finanziario) è comunque un punto di partenza: il punto di arrivo è quello di scuole auto-organizzate. In altre parole la reale autonomia scolastica è condizione necessaria ma non sufficiente per garantire un apprendimento efficace. E per far questo bisogna puntare sull’auto-organizzazione come evoluzione dell’autonomia scolastica. L’esperienza delle università italiane dotate anche di autonomia finanziaria dimostra che quest’ultima non è sufficiente a garantire un funzionamento efficiente ed efficace.

Le resistenze dall’alto possono derivare anche dal dirigente scolastico. Siamo abituati ad una leadership che controlla. Ma questo riduce il leader ad un mero controllore. Mario Andretti, storico pilota della Ferrari, ci ricorda che: se tutto è sotto controllo, stai andando troppo piano.

Un passo concettuale fondamentale per vincere le resistenze provenienti dall’alto è capire che auto-organizzazione non implica perdita di potere. Il potere è come la conoscenza: può essere duplicato. La concettualizzazione del potere come entità a somma non-zero è il passo critico per giungere a capire l’essenza dell’empowerment e la gestione dei sistemi a molte menti. L’empowerment non è abdicazione di potere, né condivisione di potere. È duplicazione di potere.

Ma le resistenze provengono anche da chi sta in basso. É molto più sicura e tranquillizzante la gerarchia, illusione di ordine, controllo e prevedibilità. Molte persone anche all’interno della scuola si aspettano stabilità, si aspettano che i timonieri – in primis il Ministero, gli uffici scolastici e i dirigenti – sappiano perfettamente dove andare. Si aspettano che chi sta in alto ne sappia sempre di più di chi sta in basso.

Se l’auto-organizzazione non prevale in modo diffuso e stabile, il motivo è perché richiede particolari attitudini e implica cambiamenti profondi nei comportamenti di tutte le persone dell’organizzazione, fino a quelle più periferiche.

Le resistenze dal basso non saranno mai superate se alla scuola mancherà un’anima, una comune ispirazione, un dream, una visione, una passione che coinvolga tutti i collaboratori nel gusto della scoperta, della ricerca, nella costruzione del nuovo, nella soddisfazione di creare qualcosa di proprio, di distintivo, nel dare significato alla propria storia, al proprio progetto di vita, ad un progetto di società più giusta e solidale.

L’auto-organizzazione per affermarsi ha bisogno di energia. L’auto-organizzazione non ha luogo se non vi è un flusso continuo di energia dall’esterno verso l’interno del sistema. L’energia esterna è necessaria affinché i sistemi complessi adattativi – come le scuole e le classi – si auto-organizzino. E questo flusso è garantito dall’intra-imprenditorialità dei docenti (nella classe) e dei dirigenti scolastici (nella scuola). La scuola muta se i suoi attori la spingono dal basso verso nuove attività, portano nuove sfide e obiettivi all’attenzione di tutti, formano e rompono connessioni all’interno e all’esterno.

In una scuola che promuove l’auto-organizzazione, dirigenti e docenti passano da un ruolo classico di “pianificazione e controllo” (rispettivamente della scuola e dell’apprendimento) ad uno nuovo di “creazione e presidio” del contesto (rispettivamente scolastico e di apprendimento). Un contesto dove la vera motivazione è l’auto-motivazione, frutto di una visione condivisa, ottenuta con l’esempio del leader che fornisce l’energia del cambiamento.

Per aumentare la qualità dei processi di apprendimento e delle scuole è necessario puntare sulle capability dell’auto-organizzazione, ovvero sulla partecipazione e sull’assunzione di responsabilità da parte di tutti in una logica di intra-imprenditorialità.

Serve intelligenza distribuita, inter-connessa, auto-motivata e auto-attivata. Al centro non si risolve. Il Ministero è necessario, ma non sufficiente. Il futuro è nella periferia, dentro le scuole auto-organizzate, capaci di promuovere feconde reti interconnesse di studenti, tecnici, docenti, dirigenti e scuole. L’auto-organizzazione, in tutta la sua infinita varietà, è il futuro più affascinante per la scuola.

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INVITO ALLA LETTURA

a cura di Mario Bertin

La tormenta turbina in cerchi infiniti

Amico Lontano e Fratello!
La tormenta turbina in cerchi infiniti, batte sui vetri e ricopre la finestra di nevischio sottile. L'arbusto che si erge davanti alla finestra è un colle di polvere ghiacciata, una piramide che cresce di ora in ora. I sentieri fumano; quando tenti di uscire, sotto i piedi si alza la polvere di neve. Fsst, fsst! Sibila lo sfiatatoio attraverso le fessure; dal fumaiolo rispondono ululati che escono come folate di vento. I turbini di neve non hanno requie. Gli alberi hanno perso il manto invernale e si agitano nudi con i rami spogli e distesi.
Mi metto ad ascoltare il lamento del fumaiolo e il sibilo dello sfiatatoio. L'anima si concentra immobile nei ricordi confusi (o sono forse presentimenti?) e sembra dissolversi nei rumori. Mi pare di trasformarmi in un vortice di tormenta. La finestra è già coperta per metà di neve. Nella stanza si insedia una semioscurità crepuscolare, un'ombra liquida e azzurrognola si posa sugli oggetti. Rassetto la lampada e un fascio dorato di raggi genera un certo chiarore. Accendo anche davanti all'icona della Madre di Dio una candela profumata di miele, di cera giallo-ambra, che mi son portato dal luogo dove vagabondammo insieme. Getto alcuni grani d'incenso nell'incensiere di terracotta dai carboni semispenti e attizzo il fuoco. Zaffate d'incenso si levano in tutte le direzioni, si confondono e si mescolano in una nube azzurrognola.
Che la finestra si addormenti sotto la tormenta. Così va bene. Così risplende più chiara la lampada, è più profumato l'incenso e più placida la fiamma della candela al miele. Di nuovo io sono con te. Ogni giorno ricordo qualcosa di te e poi mi metto a scrivere. Così giorno per giorno la mia vita scivola verso «l'altra riva», in modo che almeno di là io possa guardare a te con l'amore avendo vinto la morte e con la morte le passioni...
Oggi ricordo senza posa quel giorno gelido di tormenta quando andammo all'eremo Paraclito. Prendemmo la strada del bosco, coperta di neve quasi intatta, nella quale sprofondavamo ogni momento. Ma giungemmo alla meta.

Pavel A. Florenskij, L'amicizia, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 5 e 6

Pavel Florenskij nacque nel 1882 nel Caucaso. Laureatosi in matematica, rinunciò alla carriera accademica per intraprendere gli studi di teologia. Ordinato sacerdote, cominciò a pubblicare saggi di carattere scientifico e religioso. Nel 1914 uscì La colonna e il fondamento della verità, il suo capolavoro, da cui è tratto il brano qui pubblicato.
Dopo la rivoluzione del 1917, Florenskij fu deportato in Turkestan. Poco dopo, i bolscevichi preferirono mettere a frutto le sue capacità tecniche e scientifiche, arruolandolo nella Commissione per l’elettrificazione del Paese. Fra l’altro, in questo stesso periodo inventò il lubrificante non congelabile. Negli anni della NEP fu deportato in Siberia. Nel 1943, Stalin ne ordinò la fucilazione. Tema centrale di La colonna e il fondamento della verità è l’esperienza del sacro, la rivelazione dell’essere che nasce dall’incontro con un amico ideale. Ciò che più colpisce in quest’opera è la capacità dell’autore di coniugare la speculazione più rigorosa con l’arte più appassionata. Scrisse: “La verità manifestata è amore. L’amore realizzato è bellezza”. È stata la sua regola di vita.
L’edizione italiana è uscita con la cura e un saggio introduttivo di Elémire Zolla.
Di Florenskij vale la pena leggere anche Le porte regali (Adelphi), un saggio sulle icone e i due volumi di corrispondenza dal lager, pubblicati da Mondadori.

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SUGGESTIONI A PROPOSITO DELL'ILLUSTRAZIONE DEL MESE

Il Calicanto

Come definirlo se non pianta temeraria e miracolosa? Ci riferiamo al Calycanthus praecox o Chimonantus fragrans. È un arbusto disordinato e intricato che però si può allevare anche ad alberello con fiori gialli profumatissimi che sbocciano in pieno inverno, prima ancora delle foglie e quando tutte le altre piante sono ancora a riposo, bloccate e silenti.
Si scopre per quei piccoli fiori gialli su rami secchi e rudi, ma prima ancora per un profumo che stupisce e incanta.
Come non legarlo al coraggio, alla resilienza e alla provocazione della bontà e del dono quando sono inattesi e imprevisti. Cerchiamone un rametto da tenere in casa come segno di tenerezza e di speranza.

Il riccio

Animaletto simpatico e tenero nonostante la sua timidezza e quei suoi cinquemila aculei che gli permettono di adottare una strategia di sopravvivenza e difesa mirabile e assolutamente non violenta. Dall’autunno alla primavera inoltrata si protegge dal freddo e risolve il problema della fame entrando in letargo. Può capitare che si affezioni alle persone e assuma comportamenti quasi domestici.

Gramsci e i ricci

Pochi sanno, e può stupire, che il filosofo e politico Antonio Gramsci fra le tante lettere scritte dal Carcere in cui era stato rinchiuso dal fascismo, ne riservasse un bel numero ai figli, con ricordi d’infanzia, insegnamenti morali, racconti e favole. Uno di questi racconti ha come protagonisti dei ricci ed è nella lettera settima, quella del 22 febbraio 1922 indirizzata al figlio Delio.

L'albero del riccio

di Antonio Gramsci

Lettera VII

Caro Delio,
mi è piaciuto il tuo angoletto vivente coi fringuelli e i pesciolini. Se i fringuelli scappano dalla gabbietta, non bisogna afferrarli per le ali o per le gambe, che sono delicate e possono rompersi o slogarsi; occorre prenderli a pugno pieno per tutto il corpo, senza stringere. Io da ragazzo ho allevato molti uccelli e anche altri animali: falchi, barbagianni, cuculi, gazze, cornacchie, cardellini, canarini, fringuelli, allodole ecc. ecc.; ho allevato una serpicina, una donnola, dei ricci, delle tartarughe.
Ecco dunque come ho visto i ricci fare la raccolta delle mele. Una sera d’autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi da frutta, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque: due più grossi e tre piccolini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all’altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio più grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie. Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente: i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre più spesso, con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: c’era chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno.
Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e ce li portammo a casa.
Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte, maggiolini ecc., e mangiavano frutta e foglie d’insalata. Le foglie fresche piacevano loro molto e così li potei addomesticare un poco; non si appallottolavano più quando vedevano la gente. Avevano però molta paura dei cani. Io mi divertivo a portare nel cortile delle bisce vive per vedere come i ricci le cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia, saltava lesto lesto sulle quattro gambette e caricava con molto coraggio. La biscia sollevava la testa, con la lingua fuori e fischiava; il riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con le gambette davanti, le mordeva la nuca e poi se la mangiava a pezzo a pezzo. Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno se li era presi per mangiarli.
Ti scriverò un’altra volta sul ballo delle lepri, dell’uccello tessitore e dell’orso, e su altri animali ti voglio raccontare altre cose che ho visto e sentito da ragazzo: la storia del polledrino, della volpe e del cavallo che aveva la coda solo nei giorni di festa ecc. ecc. Mi pare che tu conosca la storia di Kim, le novelle della jungla e specialmente quella della foca bianca e di Rikki-Tikki-Tawi?
Ti bacio.

ANTONIO

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NOTE MUSICALI

a cura di Francesco Ottonello

Niccolò Castiglioni (1932 – 1996): Inverno In-ver

Niccolò Castiglioni è un compositore di epoca contemporanea, milanese, scomparso nel 1996. La sua attività compositiva attraversò svariati momenti di ispirazione, caratterizzati dall’adesione a diverse correnti musicali che si avvicendavano nel panorama musicale internazionale fra gli anni 50 e 60.
Dall’Espressionismo delle origini, attraverso la Dodecafonia, giunse ad atteggiamenti stilistici post-weberniani ma raggiunse la propria vera e reale vocazione espressiva plasmando la propria estetica musicale attorno alle piccole forme, agli aforismi musicali, dove convivono ritmi virtuosistici, eleganti giochi timbrici talvolta molto evocativi, figure capricciose e impertinenti, sovente corroborate da curiose fantasticherie calligrafiche.
Inverno In–ver è una composizione per piccola orchestra, dove sono molto ben evidenti questi elementi estetico espressivi, in cui egli cerca di ricreare col suono la rigidità del rigore invernale, del freddo e del ghiaccio. Insiste molto nello sfruttare il registro acuto utilizzando strumenti che hanno facilità a gestire quel registro (flauto, ottavino, clarinetto piccolo in Mib, strumenti ad arco) magistralmente orchestrati con un ricco apparato di strumenti a percussione, preferibilmente metallofoni.
I titoli degli undici brani che costituiscono questa geniale composizione sono eloquenti nel comunicare l’ambiente che il compositore vuole evocare: Fiori di ghiaccio, Il ruscello, Danza invernale, Salterello, La brina, Il lago ghiacciato, Nenia prima, Nenia seconda, Silenzio, Un vecchio adagio, Il rumore non fa bene. Il bene non fa rumore.
La poetica descrittiva perseguita in Inverno In-ver incarna con grande effetto quelle sonorità che lo stesso Castiglioni definiva: «chiare, cristalline, ruscellanti».

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LA SCUOLA C'È. LA SCUOLA È...

I volti e i luoghi delle scuole italiane animano il calendario che la CISL Scuola ha prodotto per il 2019. Per ognuno dei dodici mesi dell'anno, un breve film racconta la presenza della scuola in ogni angolo del Paese; ambienti, età, situazioni diverse compongono un caleidoscopio vivente nel quale si moltiplicano immagini che ci restituiscono la varietà e la bellezza di ciò che la scuola riesce ad essere, ogni giorno, per tutti e dovunque.
Per ogni mese del calendario uno specifico "codice a barre" del tipo QR code dà accesso, per chi lo inquadra col suo smartphone, alla pagina web che ospita il breve film realizzato per noi da Giovanni Panozzo. Un giro d'Italia per dirci ogni volta, in luoghi diversi, che la scuola c'è, e ciò che riesce ad essere grazie alla straordinaria energia che la muove.

Il film del mese di gennaio

"Ho visto tre lampade rotte"

L'uragano che ha sconvolto il bellunese raccontato dai bambini della scuola dell'infanzia e dal personale di un istituto scolastico che è stato per giorni centro di aggregazione, di organizzazione e di aiuto solidale. L'amore di una comunità per la sua terra e quello, ricambiato, per la sua scuola.

GLI AQUILONI

Aquilone di gennaio

Per volare nei mesi invernali
si deve amare il gelo
la pianura imbiancata
e i treni illuminati
che di notte aprono vie
tra i campi coperti di neve

In una gelida serata
gli aquiloni di gennaio
e di febbraio
salirono in alto dal piano
e videro al crepuscolo
la traccia di un vascello volante
una scia rosa tra i monti
nettissima e mobile
come il cordone
di un sipario sfrangiato
che si richiuda a poco a poco

Gli aquiloni si chiesero
se quella bellezza
così fragile e schiva
avrebbe potuto salvare
i sogni degli umani
ma non trovarono risposta
e continuarono a solcare
il cielo stellato e scuro

Giovanni Gasparini

(da Cento aquiloni: un poemetto,
Libri Scheiwiller, 2005)

UNA FILASTROCCA

Gennaio

Sono Gennaio: mi piace l’azzurro!
Io le montagne le spalmo di burro,
spargo la glassa sui pini e gli abeti,
non ti rinchiudo tra quattro pareti:

se ti proteggi con sciarpa e berretto
è uno spettacolo, te lo prometto!
L’aria è frizzante, il cielo è più blu:
ogni colore brilla di più!

Lorenzo Gobbi

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NEI GIORNI DI SCUOLA

Giornate e ricorrenze particolari
(anche per la didattica)

 
27 gennaio – Giornata Internazionale di commemorazione delle vittime dell’Olocausto

La ricorrenza, istituita il 1º novembre 2005 con la risoluzione 60/7 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si celebra ogni anno nella data che ricorda l'ingresso delle truppe dell'Armata Rossa nel campo di concentramento di Auschwitz. Le finalità delle celebrazione sono indicate nella legge istitutiva della ricorrenza, approvata in Italia cinque anni prima della risoluzione dell'ONU (legge n. 211 del 20 luglio 2000). 

Art. 1 - La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Art. 2 - In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all'articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.

La memoria per una giornata?

di Raffaele Mantegazza

In memoria di Amos Oz

Ogni anno, il 27 gennaio, le librerie allestiscono le loro vetrine con libri sulla Shoah; le scuole si preparano a ricevere i testimoni, le televisioni proiettano film come “Schindler’s List” o “Il pianista”; e il giorno dopo tutto questo tace, almeno fino alla prossima Giornata della Memoria. La istituzione della ricorrenza è stata certamente un passo importante nelle politiche della memoria nel nostro Paese. Ma come spesso accade il rischio è che proprio l’istituzionalizzazione di una data trasformi la memoria in una specie di vuoto rituale, un adempimento d’obbligo che non tocca più di tanto le coscienze dei ragazzi ma soprattutto la didattica quotidiana.

Partiamo da un assunto: la Shoah è stata un tragico esempio di collaborazione di tutte le professioni e di tutti i ruoli sociali a un progetto di sterminio senza precedenti nella storia. Medici, avvocati, insegnanti, idraulici, ferrovieri, contabili: il regime nazista è riuscito a trovare spazio per il contributo di tutti. La cosiddetta Gleischaltung, l’uniformazione di tutte le associazioni ricreative e culturali ai dettami del regime, è avvenuta in modo estensivo in tutta la società. Potremmo dire che la Shoah è stato un esperimento interdisciplinare e proprio per questo motivo ogni progetto che la riguarda all’interno della scuola dovrebbe richiamarsi al criterio dell’interdisciplinarietà.

Non solo: occorre che i progetti riguardanti la Giornata della Memoria a scuola interessino in particolare discipline differenti dalla Storia; analizzare la questione della razza dal punto di vista scientifico; mostrare nelle ore di educazione fisica il lavoro sul corpo operato dai nazisti, con un aggancio alle Olimpiadi di Berlino; studiare il contributo dei fisici al regime, fino alle discussioni sulla bomba atomica e al ruolo di persone come Heisenberg o Bohr; analizzare i rapporti tra Shoah e arte, musica, medicina, chimica. Questo approccio ha il duplice vantaggio di permettere realmente un accerchiamento multidisciplinare al tema e di contribuire una riflessione sulla scuola di oggi. Perché se è vero che medici e insegnanti sono stati i principali alleati del nazismo e del fascismo, occorre chiedersi come è stato operato il condizionamento mentale razzista e nazista all’interno delle scuole. E non basta limitarsi alla denuncia degli aspetti propagandistici della didattica (che sono forse quelli più evidenti ma non necessariamente più interessanti ed efficaci). Se la premessa fondamentale per la Shoah è stata lo spegnimento della coscienza e dello spirito critico, allora occorre domandarsi quanto oggi lo studio e la scuola sono realmente affrontati con consapevolezza di ciò che si studia e dei motivi per cui si studiano determinati argomenti e discipline.

La scuola crea futuri professionisti ma soprattutto cittadini: questa frase si riduce a uno slogan se non è intesa nel senso che la scuola crea nei ragazzi la consapevolezza che lo studio e il lavoro costituiscono il contributo specifico di una persona alla collettività (la “repubblica democratica fondata sul lavoro”) e che laddove non vi è consapevolezza del fine per cui si studia o si lavora e delle connessioni tra la propria attività e il progetto sociale generale nel quale questa attività si colloca il rischio è che il buon lavoratore diventi un pessimo cittadino o peggio ancora un “buon” cittadino di una pessima società. Perché occorre ricordare che dal punto di vista meramente tecnico il chimico nazista era un buon chimico, il fisico un ottimo fisico, il giurista un eccellente giurista: e che la logica interna delle loro discipline era stata piegata ai desideri del regime quasi senza che essi se ne rendessero conto.

Occorre poi evitare che l’approccio alla Shoah si limiti a toccare il lato emotivo dei ragazzi e delle classi; come scrive Annette Wieviorka: “Il distanziamento non impedisce di provare empatia per le vittime né orrore per un sistema complesso che ha prodotto la morte di massa. Restituisce, invece, dignità all’uomo pensante, proprio quella dignità che il nazismo aveva spazzato via giocando sulle emozioni, specialmente durante i raduni di massa, o sui sentimenti, come l’odio”. Ogni progetto sulla Shoah dovrebbe incrociare la dimensione emotiva con quella cognitiva. Non si può lavorare su questo tema senza conoscere le date, i nomi dei campi, i nomi dei responsabili, senza cioè conoscere la storia anche per come è narrata sui manuali. Le emozioni non sono bypassabili ma sono da maneggiare con estrema cura, perché ci si muove su un terreno scosceso, soprattutto quando trattiamo con soggetti in anni di formazione. Abbiamo visto troppi progetti sulla Shoah insistere sul lato emotivo scatenando emozioni che poi non sapevano contenere, per non suggerire di essere più che cauti su questo punto.

Ma qual è la reale efficacia della Giornata della Memoria a scuola? Occorre porsi una domanda cruciale. Che cosa fa un bambino o un adolescente di ritorno da un viaggio della Memoria nei campi di sterminio o da un confronto con un testimone della Shoah in occasione della Giornata della memoria? Crediamo vi siano quattro possibilità.

La prima, purtroppo reale, è che il ragazzo diventa neonazista o perlomeno confermi un orientamento razzista che aveva alla partenza; occorre sempre ricordare lo straordinario fascino del male, soprattutto sulle coscienze adolescenziali: è indubbio che le SS, i gerarchi nazisti, il nazismo nel suo insieme possono suscitare ammirazione e identificazione nei giovanissimi, ma nel caso del campo di sterminio c’è in gioco un fascino profondo, una dimensione ctonia, l’aspetto del demoniaco e della sua presa su ciascuno di noi. Auschwitz non è una medicina per lo spirito, la Giornata della memoria non è una purificazione dalla quale si esce lustrati e mondi.

Il nostro ragazzo potrebbe svegliarsi il 28 gennaio riponendo nella indifferenza quanto vissuto il giorno prima: per esperienza diretta possiamo dire che si tratta di gran lunga della reazione più comune. Ci si commuove, ci si indigna perché questa è la reazione che adulti e insegnanti si aspettano da noi, e poi tutto viene allineato sugli scaffali di quel supermercato della cultura cui sempre più assomigliano le nostre scuole. E se questa operazione è deleteria per qualunque contenuto scolastico, lo è ancora di più per la Shoah.

L’adolescente del quale stiamo parlando potrebbe avere una reazione del tutto diversa, considerando il 27 gennaio come una sorta di rivelazione se non di vera e propria conversione. Il ragazzo inizierà a leggere tutto ciò che è stato scritto sul tema, divorerà Primo Levi ed Elie Wiesel, collezionerà i DVD di Schindler’s List e de La vita è bella. Una reazione positiva? Solo in parte; perché se la Shoah diventa una specie di fissazione monomaniacale, se diventa l’unico orizzonte del discorso, rischia di essere una sorta di prigione; il filo spinato del lager conteneva corpi, il discorso sulla Shoah rischia di contenere le anime: il risultato sono persone che si occupano di questo tema in modo così totalizzante che quando le si richiama a un’azione a proposito dei diritti delle donne somale, dei rom in Italia, dei bambini schiavi delle multinazionali delle scarpe, la loro reazione è tutta giocata sull’incomparabilità di questi eventi rispetto alla Shoah; la potenza del male è così forte che il discorso su di esso rischia di restarne abbagliato, di continuare a muoversi in cerchio, come allucinato e ipnotizzato dalla sua perfezione.

E dunque? Forse il nostro giovanissimo amico potrà scegliere una quarta strada: certo, potrà leggere qualche testo, incontrare qualche testimone, visitare qualche sito dell’Aned; ma quello che noi speriamo è che il ragazzino ricordi lo sterminio degli omosessuali per capire perché i due suoi compagni maschi che si sono accarezzati durante l’intervallo sono stati presi in giro dai loro amici (e forse anche da lui); che pensi alla Shoah dei rom per comprendere come mai sono ancora i rom ad essere al centro delle politiche e dei discorsi razzisti nel nostro Paese; che rifletta sulla Aktion T4 contro i disabili per osservare con occhio diverso le barriere architettoniche che costringono il suo compagno sulla sedia a rotelle a chiedere sempre l’aiuto di due amici per salire il gradino che porta in biblioteca. Non perché Auschwitz sia qui: ma perché la barbarie è astuta, e la Giornata della memoria deve servire a formare coscienze democratiche e antifasciste più astute e scaltrite di lei.

La mattina del 28 gennaio le librerie iniziano a togliere dalle vetrine i libri di Anna Frank e di Primo Levi; gli addetti del Comune tolgono dalle bacheche le locandine sul dibattito con i testimoni, il palinsesto delle televisioni torna a programmare film che non siano “Il bambino dal pigiama a righe” o “La tregua”. Per un anno, non se ne parli più; magari con una coda il 25 aprile e con qualche riferimento polemico il 10 febbraio. La memoria ha avuto la sua giornata di gloria, i suoi quindici minuti di celebrità. Ora tocca a qualcun altro.

Ma la nostra speranza è che nella scuola accada qualcosa di diverso. La nostra speranza è che la mattina del 28 gennaio sia un momento di allegria e di gioia per i ragazzi che hanno partecipato a un progetto sulla Giornata della Memoria: la gioia che ciascuno di noi prova quando si sta occupando di qualcosa di eticamente giusto, l’allegria di chi sa che è possibile cambiare il mondo.

Mentre attorno si dimentica per altri 364 giorni, la nostra speranza è che i giovani ricordino; ma non con dolore, con afflizione, con angoscia. La nostra speranza è che la Giornata della Memoria regali ai ragazzi e alle ragazze una nuova nozione di bellezza, una nuova scuola, un nuovo modo di sentire. L’allegria è un’arma resistenziale perché non cede alla depressione e all’angoscia che temono che il mondo sarà sempre così; l’allegria è nutrita dalla consapevolezza del male (altrimenti è ottusità) ma anche dell’ottimismo della volontà, che a dieci anni ha il sapore del gioco, a quindici anni della speranza, a diciotto dell’utopia, a trenta dovrebbe avere il sapore del progetto politico. Speriamo dunque che il 28 gennaio possa essere una giornata di allegria, dunque; e possa essere l’inizio di qualcosa di nuovo, come non accadde del tutto, purtroppo, il 28 gennaio 1945.

Una Giornata della memoria lunga un anno ha senso se va oltre la memoria: se diventa progetto, speranza, utopia, incerti passi in un mondo ancora da pensare, tremolante e fragile luce di un nuovo, inaspettato inizio.

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