novembre 2018

In questa pagina:
l'immagine del mese; il terzo mese; la parola del mese (Intendere/Farsi intendere); invito alla lettura; note musicali; un brano di prosa e una filastrocca; giornate e ricorrenze particolari (anche per la didattica). In quest'ultima sezione un contributo di notevole spessore, che segnaliamo per un possibile utilizzo didattico, è quello curato da Elio Formosa per la ricorrenza del 4 novembre, anniversario della fine della I guerra mondiale.
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L'ILLUSTRAZIONE

 

L'autunno, prima caldo e dorato, ora si adombra in giornate più corte nell’addio delle ultime foglie.

Le gru sono in viaggio verso ricoveri invernali. Dalla rotta baltico-ungherese a grandi gruppi sorvolano anche il Nord dell’Italia. Scopriamole nel grigio del cielo.

Nella mitologia greca la gru era simbolo di vigilanza e saggezza; era considerato l’uccello della fortuna.

Poche cose sono più belle e graziose della danza delle gru nella stagione dei loro amori.

Eva Kaiser

Il terzo mese

Fra terra e cielo

di Leonarda Tola

Su Novembre undicesimo mese, “in altalena tra l’autunno e l’inverno” (Marzia Cabano ), densa di immagini è la memoria poetica nei versi cantilenati da bambini. La nebbia prima di tutto, il cibo di cui Novembre si sazia: sale dai campi arati “a gli irti colli ” (Carducci) lasciando una pioggia leggera, nel mattino sembra fumo che s‘alza dai cespugli. “Secco è il pruno, e le stecchite piante” (Pascoli), nudi i rami da cui fragili cadono le foglie ingiallite, nei prati e negli orti senza fiori.
Novembre cupo e triste, “È l’estate /fredda dei morti” sigilla Pascoli. L’altra forte istantanea di Novembre: nella stagione del crisantemo si celebra la festa dei morti con i loro fiori e nel loro giorno. L’idea della festa attraversa e innerva la memoria ciclica dei morti: osannate le anime sante nel gaudio del cielo il primo Novembre, Ognissanti, i l secondo giorno del mese sono rievocati i morti, riportati dalla pietà cristiana alla famiglia umana a cui sono appartenuti nel tempo transeunte dei viventi.
La festa vuole i suoi riti per onorare, mescolandole, la vita e la morte, l’allegria e il lutto n ei modi diversi dei tempi e di altre latitudini, tra persistenza e mutamento. Usanze tramandate dalla notte dei secoli e pervenute fino a noi che rivestono di carnalità l’esangue regno delle anime, nel tentativo di abbattere la sottile parete che divide qu esto dall’altro mondo. Così in molte antiche civiltà si scopre la testimonianza di continuità tra la terra dei vivi e il tenebroso aldilà. Nella notte di Tutti i Santi, in Sardegna, si apparecchia e si lascia nella credenza il piatto pieno del cibo preferi to da coloro che quella casa l’hanno abitata e lasciata, fuggendo nell’altrove dalla terra; badando ad eliminare forchette e coltelli per scongiurare la paura dell’uso che altre misteriose e inattese presenze potrebbero farne. Racconta Grazia Deledda “La s era di Tutti i Santi i sagrestani delle chiese di Nuoro si armano di un campanello e di bisacce, e picchiano quasi ad ogni porta, chiedendo il MORTU MORTU. Vengon loro dati i PAPASSINOS, il pane, frutta secche, mandorle e noci”. Tradizione mantenuta fino a non troppo tempo fa nel giro festoso dei bambini questuanti dolci e altro che nessuno negava: per compiacere le anime dei morti (po sas animas) che im personavano con gaia innocenza.
Una tradizione che ha somiglianze solo apparenti con Halloween. Divertime nto tra horror e burla carnevalesca, allestimento per i bambini a cura del mercato planetario di scheletri e spettri nelle deformi pantomime, in un'irridente rappresentazione della livida morte senza cielo.

Proverbi

Novembre va in montagna e abbacchia la castagna

Per Ognissanti mantello e guanti
(1 novembre)

L’estate di S an Martino dura dalla sera al mattino
(11 novembre)

Per San Martino castagne e vino
(11 novembre)

Per San Clemente l'inverno mette un dente
(23 novembre)

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LA PAROLA DEL MESE

INTENDERSI / FARSI INTENDERE

di Luciano Corradini

Ho letto la notizia del ferimento di una docente di italiano e storia nell’IPSIA “Floriani” di Vimercate, colpita alle spalle da una sedia lanciatale da uno studente finora ignoto, in un’aula in cui era stata prima spenta la luce. Finora nessuno dei suoi compagni ha dichiarato di conoscere l’autore quell’”eroico” gesto.

Buio e botte nella scuola

Non mi dilungo nel commento di questo triste episodio, incredibile ma purtroppo non unico. Vorrei però che in quella scuola si creasse almeno per un poco un clima di dialogo, quello che don Milani, dopo avere scritto nella Lettera a una Professoressa, con i suoi alunni, che “il fine giusto è dedicarsi al prossimo”, aggiunge: “Ma questo è solo il fine ultimo da ricordare ogni tanto. Quello immediato, da ricordare minuto per minuto è d’intendere gli altri e di farsi intendere”. Per intendere e farsi intendere bisogna almeno guardarsi in faccia, non spegnere la luce e buttarsi addosso le sedie. Se nelle nostre scuole si arriva a questo punto, è perché sono venute meno le precondizioni o i legittimi risultati attesi di uno stare insieme che abbia le caratteristiche della scuola, in greco scholé, che significa agio, distensione, disponibilità al colloquio e all’apprendimento, parenti stretti del latino studium, che significa desiderio e impegno a cercare e ad apprendere insieme.

Le condizioni per star bene a scuola

A scavare in queste classiche parole, che sono le antenate della nostra scuola, ci dedicammo fra gli anni ’80 e gli anni’90, intorno al concetto di salute, affidato come compito educativo alla scuola dalla legge 309/1990 (artt.104-106). Intendemmo la salute come stato fisico, psichico e spirituale, contrario al malessere, al disagio, alla droga, alla dispersione, alla demotivazione, alla violenza, ossia a quel brodo di cultura di tante devianze e sofferenze vissute e provocate dai giovani, a danno di sé stessi e di altri. A questi disvalori si ponevano in alternativa i valori del dialogo anche coi genitori, della partecipazione, del protagonismo giovanile, dentro e fuori la scuola. Vorrei che non andassero perduti, nella memoria dei docenti, i significati raccolti negli slogan che volevano dare concretezza e forza mobilitante a una scuola impegnata a promuovere anche il ben-essere, con gli strumenti di cui dispone, e di cui spesso non si rende conto. Gli slogan erano espressi all’infinito: star bene con sé stessi in un mondo che stia meglio, star bene con gli altri, nella propria cultura in dialogo con le altre culture, star bene nelle istituzioni, in un’Europa che conduca verso il mondo. In realtà si trattava di condizionali, o meglio di imperativi ipotetici o della possibilità: “Se vuoi star bene, datti da fare (o meglio, diamoci da fare), per aiutare il mondo a star meglio, per accettare gli altri e farci accettare da loro, per conoscere e per esercitare i diritti e i doveri che hai (o meglio che abbiamo) come cittadini della scuola, preparandoci a diventare a pieno titolo cittadini dell’Italia, dell’Europa e del Mondo”.
La frase di don Milani prima citata aveva ridotto questi concetti ad un essenziale duplice movimento dialogico, che qualifica l’essenza della scuola: “intendere e farsi intendere”. Il che implica anche l’ascoltare e il farsi ascoltare. Entrambe queste funzioni presentano difficoltà e indicano una concezione severa ma anche serena della scuola e del lavoro che in essa si è chiamati a compiere.

“Insegnerei anche a chi mi darebbe fuoco”

Nell’esperienza e negli scritti del “priore” di Calenzano e di Barbiana, l’equazione fra salvezza cristiana e accesso laico alla conoscenza funziona anche nella definizione del sapere e del maestro. "Il sapere serve solo per darlo. Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo" … "Dicesi maestro colui che cerca di contraddire e mutare i gusti dei suoi clienti. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua". In realtà la verifica di questa pedagogia è affidata alla sua esperienza e al suo impegno. Ammette ad un certo punto d’aver combattuto una sorta di corpo a corpo con i suoi allievi, ma chiarisce subito che non è una lotta per dominare, ma per servire: "Non ho seminato che contrasti, ma insegnerei anche a chi mi darebbe fuoco". È l’espressione di un amore che va al di là del conflitto: lo riconosce, lo accetta, però non ritiene che sia questa la dimensione ultima della vita e della scuola.
In questa ricerca di significati possiamo risalire anche laicamente all’esperienza del rabbì Gesù di Nazareth. Neppure lui riesce pienamente a “intendere e farsi intendere”, nel triennio del suo insegnamento in Palestina.
Che la parola non sia “la chiave fatata che apre ogni porta”, come dice don Milani con la sua nobile fiducia nell’educazione, si scorge fin dall’inizio del Vangelo di Giovanni.

“È venuto nel mondo che è suo, ma i suoi non l’hanno accolto”

Neppure la Parola per eccellenza, il Verbo, secondo il Vangelo di Giovanni, cioè Gesù, mostra d’essere la “chiave fatata che apre ogni porta”, per usare la poetica frase di don Milani. Tanto è vero che l’evangelista Giovanni, dopo avere scritto che il Verbo di Dio, che era la luce, venne nel mondo, aggiunge che il mondo non l’ha riconosciuto e che i suoi non l’anno accolto. All’inizio della sua predicazione, anche quando utilizza la suggestiva parabola del seminatore, per chiarire la novità che vuole comunicare, conclude il discorso in un modo che può essere inteso come rassegnato o come provocatorio: “Chi ha orecchi per intendere, intenda” (Mc, 4,9).

“Alcuni però hanno creduto in lui”

Alcuni hanno questo tipo di orecchi e, utilizzandoli, compiono una “metanoia”, cioè cambiano vita. È il caso dei primi discepoli: “Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: ‘Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini’. E subito, lasciate le reti, lo seguirono”. (Mc, 1, 16-18). Il racconto è asciutto, senza dialogo. Marco ha saltato probabilmente alcuni passaggi, volendo far capire la conclusione di questo incontro, la potenza della figura e della parola del Nazareno e la fiduciosa disponibilità di chi decide di cambiar vita seguendo un maestro d’eccezione.

Delusione e amarezza per non essere ascoltato e capito

Molti però non ci stanno. I suoi stessi parenti dicono che Gesù è diventato pazzo. E allora Lui parla in pubblico, si difende, spiega, argomenta, confuta e persino minaccia, per mostrare che con lui è lo Spirito di Dio, non quello del demonio (Mc, 3, 23-39).
Coloro che lo conoscono da vicino, come falegname, rifiutano di riconoscere il suo nuovo linguaggio, i miracoli, la proposta di cambiar vita. Anche qui Gesù non si rassegna: “Si meravigliava che quella gente non avesse fede” (Mc, 6, 1-5). Questa meraviglia è stupore, ma soprattutto delusione e amarezza, per non essere ascoltato e capito. Egli avverte insomma d’essere frainteso nelle sue intenzioni di amore appassionato per la sua terra e d’essere rifiutato come persona: "Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa viene lasciata deserta" (Lc 13,34-35).

Orecchi per ascoltare e occhi per vedere

Lo stesso Luca ricorda un altro momento di sofferenza di Gesù di fronte a questo rifiuto: “Quando fu vicino alla città, Gesù la guardò e si mise a piangere per lei. Diceva: “Gerusalemme se tu sapessi, almeno oggi, quello che occorre per la tua pace! Ma non riesci a vederlo!...”. Occorrono dunque non solo orecchi per ascoltare, ma anche occhi per vedere i segni dei tempi, e magari anche per piangere per la cecità altrui. Neanche i miracoli servono a convincere quelle folle, che prima vogliono farlo re, sperando in un capo che li gratifichi, ma poi lo condannano a morte, perché non hanno capito la sua persona e il suo messaggio.

Il fallimento di un’esperienza e la rivelazione di un mistero

In tre anni si chiude tragicamente l’esperienza educativa di Gesù maestro. È in certo senso un clamoroso fallimento, in altro senso un’esperienza fondamentale per la comprensione della condizione umana e una testimonianza di fiducia negli altri e nell’educazione, nonostante tutto. Ai suoi discepoli che lo avevano abbandonato, dopo la resurrezione dà la consegna di andare, insegnare, battezzare, “farsi dei discepoli” (mathateusete). Dopo oltre duemila anni, continua, in diversi contesti culturali e con diversi mezzi, l’impegno dei credenti a comunicare con chi ancora non è credente o non lo è più, e a trasmettere un messaggio che si propone non solo come contenuto da far conoscere, ma anche come invito ad un modo di essere e di porsi in una nuova relazione con Dio e, con lui e attraverso lui, con gli altri, presenti, passati e futuri.

Educare e insegnare nella scuola

Lo stesso impegno, anche se contratto con lo Stato, è chiamato ad assumere ogni insegnante che insegni in una scuola della Repubblica, che, dopo aver riconosciuto e garantito “i diritti inviolabili dell’uomo” e richiesto “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”, finalizza l’intero ordinamento al “pieno sviluppo della persona umana e all’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese” (art.3).
E chi non ha “orecchi per intendere”? E chi non riesce a “farsi intendere”? Non si possono dare per scontati né il successo né l’insuccesso.

Torniamo ai giovani d’oggi e alla loro difficoltà a riconoscere e a ritenere significativo per la loro vita un complesso di discorsi, di simboli, di atteggiamenti e di comportamenti che sono lontani dal loro immaginario e dalle loro relazioni ed esperienze quotidiane. Molti non si chiedono neppure perché mai, con Babbo Natale e con la Befana, certi adulti, che pure stupidi non sembrano, non si siano lasciati alle spalle anche Gesù, con tutte le dottrine e con tutte le istituzioni, non sempre esemplari, che si richiamano al suo nome. E perché mai, pur leggendo giornali e social, continuino a credere nei diritti umani. È un fatto che a qualcuno l’oroscopo appare una cosa più seria e più interessante d’una parabola evangelica. Non mancano le occasioni per chiarire, approfondire, discutere anche nell’adolescenza la natura del Cristianesimo e la possibilità di pensare e vivere la fede, senza esser costretti a buttar via la ragione. Si tratta però di discorsi lunghi, per i quali sembra non esserci mai tempo disponibile, perché molte sono le persone, le cose, le avventure che attraggono l’attenzione. Come si fa ad arrivare in fondo alla pagina?
Aumenta, con i cellulari, una sorta di “rumore di fondo”, che distrae dalla ricerca del senso della vita e che attenua il bisogno di andare “a fondo”: sicché i messaggi più importanti sfuggono o appaiono poco significativi e perfino noiosi. Si può sempre “cambiare canale”, in famiglia, a scuola, in chiesa, fra gli amici. Naturalmente i disturbi comunicativi possono trovarsi anche nella qualità del messaggio e nella credibilità di chi lo emette.

Non rinunciare a proporre e non pretendere d’imporre

Anche duemila anni fa Paolo di Tarso sperimentò più volte chiusure e indisponibilità all’ascolto dell’annuncio del Vangelo di Cristo. Famoso è il suo discorso all’Areòpago. Cominciò con abilità e con energia, ottenendo ascolto fra i dotti; ma quando accennò alla resurrezione di Cristo, quelli se ne andarono: “Su questo ti ascolteremo un’altra volta” (Atti,17, 31). E tuttavia non si è rassegnato. A Timoteo raccomanda: “Predica la parola di Dio, insisti in ogni occasione, opportuna e anche importuna, rimprovera, raccomanda, incoraggia, usando tutta la tua pazienza e la tua capacità d’insegnare. Perché ci sarà un tempo nel quale gli uomini non vorranno più ascoltare la sana dottrina, ma seguiranno le loro voglie, si procureranno molti nuovi maestri, i quali insegneranno le cose che loro avranno voglia di ascoltare. Non daranno più ascolto alla verità e andranno dietro alle favole. Tu però sta sempre in guardia, sopporta le sofferenze, continua il tuo lavoro di predicatore del Vangelo, porta a termine il tuo impegno a servizio di Dio”. (2Tim, 4,1-5)

Opportunamente e inopportunamente, ma con pazienza e con perizia

Come Gesù, neanche Paolo promette il successo dell’azione educativa, ma chiede un impegno di perseveranza “opportune importune”, come dice il testo latino. Questa espressione oltranzista è però mitigata da due concetti: la pazienza e la capacità d’insegnare. Il che significa essere capaci di autocontrollo, di distacco, di rinuncia alla pretesa di successo, e di rispetto dei tempi e dei problemi degli altri.
Il famoso “importune” è un invito a non rinunciare, a non lasciar perdere per evitare grane; non è però l’autorizzazione a intervenire a sproposito, creando nell’interlocutore una resistenza non tanto al messaggio, quanto ai modi e ai tempi con cui si pretenda d’imporlo. La capacità d’insegnare, invocata da Paolo, implica la conoscenza della verità che si vuole trasmettere e della psicologia di coloro a cui ci si rivolge: ma anche la conoscenza della diversa rilevanza dei nuclei di questa complessiva verità, in relazione alla diversa qualità del terreno su cui si semina la proposta. Il bravo educatore sa che anche i terreni aridi possono venire innaffiati e coltivati; ma sa anche che, se proprio si è rifiutati, almeno temporaneamente è possibile ritirarsi, anche senza “scuotere la polvere dai calzari” (Mt, 10, 14). Quanto al raccolto, non sta a noi stabilire se e quando avverrà.

Intendere e farsi intendere: non solo doveroso e difficile, ma possibile

L’educatore sa d’aver a che fare con forze che distraggono l’attenzione delle persone con messaggi suadenti e ingombranti, che possono influire negativamente sull’attenzione e creare interferenze con messaggi alti e profondi con cui pure dobbiamo responsabilmente sintonizzarci. Mi permetto di citare in proposito il frutto di una sorta di bilancio documentario che ho fatto dopo vari decenni d’insegnamento e non solo. L’ho intitolato Sentieri rivisitati ricordando discepoli e maestri (Armando, Roma 2016). Ho utilizzato lettere ricevute e conservate in un arco di tempo di sessant’anni. Mi sembra d’aver raccolto testimonianze che vanno anche oltre le immagini e gli episodi di cui abbondano le cronache, relative a vicende tristi e amare e più raramente gioiose ed entusiasmanti. Ho colto nello svolgersi del tempo alcuni cambiamenti che avvengono nelle persone e l’inattesa possibilità di scoprire frutti tardivi, che consentono di ritenere da un lato più comprensibili, anche se non accettabili, i comportamenti violenti o comunque di rifiuto del dialogo, da parte di qualcuno degli attori della scena scolastica e familiare, dall’altro di scoprire che non vanno sempre perduti gli sforzi fatti per intendere e farsi intendere, con studenti, colleghi, dirigenti e tutte le persone con cui abbiamo relazioni più o meno durature e profonde.
Sempre dalle cronache di questi giorni abbiamo avuto una notizia che attendevamo da 9 anni: Asia Bibi, pakistana, madre di cinque figli, cristiana, accusata di blasfemia contro Maometto e subito incarcerata, è stata finalmente assolta e liberata per non aver commesso il fatto. I fanatici che l’hanno accusata non demordono. Con loro i giudici non sono riusciti a “farsi intendere”, rischiando la vita, pur di rendere una giustizia pur gravemente tardiva, a una donna innocente. Si sono invece fatti intendere ed applaudire da quella parte di mondo che chiede a tutte le autorità di tutti gli stati di rispettare la dignità della persona solennemente affermata nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

Il messaggio del giovane Ulivi e l’intuizione mistica di Dante

Concludo con una frase a me cara, letta in una delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza (P. Malvezzi, Girelli, a cura di, Einaudi, Milano 1952) scritta ai suoi amici dal diciannovenne Giacomo Ulivi, studente di Parma, prima d’essere fucilato dai fascisti, nel novembre del 1944: “Dovete convincervi e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare”.
Quello che per questo giovane era un nobile dovere morale e politico, e che per don Milani era un imperativo pedagogico, di fatto non trova, come s’è visto, una perfetta, “magica” sintonia comunionale nelle relazioni umane. In Dante questo imperativo è frutto di meditazione teologica e di contemplazione poetica. L’intendere e farsi intendere è prerogativa che si trova perfettamente realizzata solo nel dialogo interno alla Trinità divina, a cui Dante si rivolge con questa invocazione: “O luce etterna, che sola in te sidi, sola t’intendi e da te intelletta e intendente te ami ed arridi!” (Par, XXXX, 124-126). Dove non giunge l’”alta fantasia”, giungono la mistica e la poesia, che trovano nella perfetta comunione trinitaria il segreto, l’origine e il fine della vicenda umana e il modello inarrivabile cui ispirarsi, nel faticoso e incerto cammino della nostra umanizzazione.

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INVITO ALLA LETTURA

a cura di Mario Bertin

Tempesta di rimorsi ed elettricità

Le due suore uscirono dalla stanza, lasciandosi dietro una coda di odori misteriosi: culi sporchi, borotalco, stoffa a lungo conservata, geranio, mandorle essiccate all’occhio del sole, uva muffita.
Carmine Pullana ne approfittò per guardarsi intorno e aprire la finestra in cerca di una boccata d’aria fredda. Inghiottì il gelo che saliva frizzando dalla valle e si osservò nel riflesso ondulato dei vetri. Si sentì un bastardo, a spremere ricordi da una vecchia suora paralitica che forse cercava solo di dimenticarsele, le sue disgrazie. Per la prima volta, da quando era arrivato a Baraule, si lasciò inghiriare da un senso di tristura e vergogna. Stava costringendo gli altri a rivoltare il passato, e in quel gira gira tornavano a galla non solo i fili spezzati della sua infanzia, ma anche le ferite ormai chiuse di chi lo aiutava a costruirsi un passato. Si mise la mano destra sul cuore: quasi non batteva. Soffi brevi accompagnati da un respiro che si affannava in salita fino a morirgli in gola.
Fuori, le montagne a nord di Baraule si allungavano sopra il tetto di latta del lago di Specumele, braccia di pietra protese verso un cielo marcio che si caricava di nuvole. Tempesta di rimorsi ed elettricità. In fretta le nuvole appassirono fino a diventare nere come gli acini di un grande grappolo e scoppiarono i primi tuoni. Drouuun, drouuun! Quando i chicchi di grandine iniziarono a rimbalzare sulla grondaia Carmine Pullana chiuse la finestra. Prese dal taschino l’orologio e con la punta dell’unghia ne fece scattare il coperchio: mancavano venti minuti a mezzogiorno.

Salvatore Niffoi, Ritorno a Baraule, Adelphi, Milano 2007, p.59

Di Salvatore Niffoi (1950) si conosce poco. È nato e vive a Orani, paese al centro della Barbagia, in provincia di Nuoro. Fino al 2006, anno in cui ha vinto il premio Campiello con La vedova scalza, è stato insegnante di italiano nella scuola media.
Protagonista di Ritorno a Baraule, romanzo di cui proponiamo un breve passaggio, è il chirurgo Carmine Pullana, “salvatore di bambini col cuore guasto”. “Aspettando che tornasse il bel tempo, passava il giorno e le notti a cercare di ricostruire il proprio passato, tentando di distinguere le carte buone da quelle false, perché cominciava a sospettare che il quel gioco della memoria gli avessero distribuito delle carte truccate. A volte, quando non riusciva a prendere sonno, se ne stava fino a tardi di fronte al camino, ad aggiungere al fuoco ciocchi di vite e di olivastro, per scacciare con le fiamme i fantasmi che gli danzavano dentro e rinviare la paura dei sogni. I sogni li temeva più della malattia, perché arrivavano all’improvviso e a tradimento lo trasformavano in quello che non voleva essere. Nei sogni diventava spugna, polpo, muggine che nuota nel fango e non sa se sta per nascere o per morire”.

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NOTE MUSICALI

a cura di Francesco Ottonello

Ottorino Respighi (1879-1936): Gli uccelli - suite per piccola orchestra P 154

Nei primi quindici anni del Novecento, la Musicologia italiana operò per darsi una organicità, attraverso un’attività operativa strutturata e con l’apertura delle prime cattedre universitarie di Storia della Musica. La riflessione critica dell’epoca si concentrò soprattutto a denunciare l’onnipresenza del melodramma, come vero e proprio monopolizzatore della scena musicale nazionale, talvolta scadendo in giudizi impietosi e ingiusti, frutto di veri e propri abbagli. Nonostante questi svarioni, la nascente critica musicologica ebbe, per converso, grandi pregi come: sollecitare la necessità di uno sviluppo della musica strumentale, per contenere lo strapotere dell’opera, e soprattutto ripescare e studiare tutto il ricco patrimonio strumentale italiano del passato come quello del Sei – Settecento. Tale fiorire di studi sulla musica del passato ebbe il positivo effetto di stimolare i compositori di inizio secolo (in particolare quelli della cosiddetta “Generazione dell’Ottanta”) a ripercorrere in chiave contemporanea la musica antica, spesso con felici risultati creativi. Si pensi, per esempio ai lavori orchestrali di Alfredo Casella come Scarlattiana e Paganiniana, rispettivamente su temi di Domenico Scarlatti e Paganini, o a Gianfrancesco Malipiero con la sua Cimarosiana. Fra i compositori di questa generazione Ottorino Respighi fu forse quello che più di tutti decise di percorrere il filone del rapporto col passato strumentale, declinandolo spesso in maniera del tutto originale.
Fra i molti lavori orchestrali ispirati alle antiche melodie troviamo la suite per piccola orchestra intitolata Gli Uccelli dove le melodie provenienti dal Settecento, piuttosto che dal canto popolare, vengono non tanto citate e riproposte ma ricreate e adattate al gusto musicale dell’epoca. Respighi elabora il materiale musicale preesistente per enfatizzarne i significati originali e gli aspetti ora melanconici ora umoristici o ironici, senza mai scadere in una becera e banale riproposizione del modello.
La suite Gli Uccelli si riallaccia ad una consolidata tradizione di “fare il verso” musicale ai volatili; prima di Respighi già Clément Jannequin, nel 1500, aveva scritto una chanson ispirata ai versi degli uccelli, poi seguito da Kerll, Pasquini, Biber, Jean Philippe Rameau. Anche dopo Respighi questa tendenza proseguì e il francese Olivier Messiaen, in pieno Novecento, dedicò un intero lavoro per orchestra al canto degli uccelli che possiamo definire come un vero e proprio catalogo ornitologico musicale.
Gli Uccelli di Respighi si compone di 5 brani ispirati da musiche del XVI e XVII secolo: un Preludio, ispirato da un’Aria di Bernardo Pasquini (1637 – 1710); La Colomba, ispirato dalla musica del liutista francese Jacques de Gallot (dopo il 1600 – 1690ca); La Gallina, che rende omaggio a Jean Philippe Rameau (1683 - 1764; L’Usignolo, da un canto popolare olandese; Il Cucù, nuovamente da Pasquini.

Vai all'ascolto

Francesco Ottonello, percussionista e musicologo, si è formato a Milano e Torino, dove si è diplomato in strumenti a percussione, composizione e strumentazione per banda. Ha suonato in Italia (Teatro alla Scala, Teatro Carlo Felice, Orchestra Verdi di Milano, Europa Galante, Orchestra Sinfonica di Sanremo) e all’estero (Komorní Opera Praha). Ha studiato direzione d’orchestra nei Conservatori di Praga e Liegi. Ha suonato in diversi complessi orchestrali sotto la direzione di Riccardo Muti, Fabio Luisi, Daniel Baremboim, Gustavo Dudamel, Daniel Harding, Gianluigi Gelmetti, Shlomo Mintz. È laureato in Musicologia presso l’Università degli Studi di Milano (relatore Prof. Emilio Sala), con una tesi su Gioacchino Rossini.

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SUGGESTIONI A PROPOSITO DELL'ILLUSTRAZIONE DEL MESE

La gru

In Sardegna, in Sicilia e sulla media costa tirrenica vengono censiti ancora piccoli stormi di gru che si fermano per svernare. In genere, da noi sono solo di passo in primavera e in autunno. Pare che fino a metà dell'800 le gru nidificassero anche in qualche area umida d'Italia. La gru è citata da Dante nella Divina Commedia; famosa è poi la quarta novella della sesta giornata del Decamerone di Boccaccio intitolata "Chichibio e la gru" in cui si esalta l'intelligenza rapida che esplode in una battuta di spirito.

Il nido d'uccello

Molte le suggestioni e i racconti che possono venire dagli uccelli migranti. Qui ci piace riportare un racconto chassidico proposto da Martin Buber dove si parla di un uccello di passo, ma soprattutto si parla di solidarietà e si insegna che soltanto il fare squadra e l'essere comunità permette di raggiungere obiettivi alti.

Una volta il Baalshem si trattenne molto a lungo a pregare nella sinagoga. Tutti i suoi avevano già finito di pregare, ma egli continuava, senza badare a loro. Essi lo attesero un bel pezzo, poi andarono a casa. Diverse ore più tardi, quando, dopo aver atteso alle loro varie faccende, ritornarono alla sinagoga, lo trovarono ancora in preghiera. Più tardi disse loro: «Per essere andati via e avermi lasciato solo, mi avete procurato una penosa scissione. Ve lo dirò in forma di parabola.
Voi conoscete gli uccelli di passo che d'autunno volano verso i paesi caldi. Ebbene, gli abitanti di uno di questi paesi videro un giorno nell'aria, nello stormo dei migratori, uno splendido uccello variopinto, di bellezza mai vista. L'uccello si posò sulla cima dell'albero più alto e vi fece il nido. Quando il re del paese venne, a saperlo, ordinò che portassero giù l'uccello nel suo nido, e volle che parecchi uomini si disponessero presso l'albero a modo di scala, salendo l'uno sulle spalle dell'altro, fino a che quello che stava in cima giungesse tanto alto da prendere il nido. Ci volle del tempo per formare quella scala vivente. Quelli che stavano in basso persero la pazienza e si scossero, e tutto precipitò.»

Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, 1979

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GLI AQUILONI

Aquilone di novembre

Nel cielo umido e greve
dubitoso tra la pioggia e la neve
l'aquilone di novembre
si era portato di scatto
appena al di sopra
della vegetazione arborea

I larici a perdita d'occhio
erano innùmeri
fiamme del bosco
dolci lance aranciate
militi di un'armata mansueta
accampata sul monte
fino ai salti di roccia

Gli alberi sembravano
creature oranti
che implorano
con gli ultimi aghi
una grazia impossibile

quella — pensò l'aquilone —
che cessi ogni guerra
e pace vera abbia inizio
tra gli umani per sempre

Giovanni Gasparini

(da Cento aquiloni: un poemetto,
Libri Scheiwiller, 2005)

UNA FILASTROCCA

Novembre

Ecco le foglie – vi piacciono ancora?
Certo, le stacco: credetemi, è l’ora!
Lucido l’aria, la rendo brillante,
ogni colore la trova esaltante:

ride l’azzurro, il rosso fa festa,
l’ocra ed il giallo hanno perso la testa,
con il marrone fan le capriole…
guarda soltanto, non dirlo a parole!

Lorenzo Gobbi

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NEI GIORNI DI SCUOLA

Giornate e ricorrenze particolari
(anche per la didattica)

Due le ricorrenze di questo mese che vogliamo ricordare, il 4 novembre: centesimo anniversario della fine della Prima Guerra Mondiale, e il 21: festa dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza.

4 novembre – 100 anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale

L'ultimo anno di quel conflitto noi lo abbiamo già ricordato con due approfondimenti scritti dal nostro Elio Formosa in un racconto storico (v. sul nostro sito 1917-1918 Di guerra e di pace) che ora qui si completa ripercorrendo gli ultimi giorni della guerra fino alla firma dell'armistizio siglato a Villa Giusti.

Vittorio Veneto dall'una e dall'altra parte

di Elio Formosa

 

È l’alba di martedì 29 ottobre dell’ultimo anno di guerra. Sulla linea del fronte Piove a scrosci fitti, di continuo. Le strade sono ridotte a nastri di fango, che rigano di grigio la campagna. È il giorno di sant’Onorato di Vercelli che nel quarto secolo mise fine al conflitto nella Chiesa vercellese e pacificò gli animi dei contendenti. Sul Pia ve ristagna la bruna. Il fronte passa tra strada statale a sud di Lavini di Marco, oggi area protetta, e la linea ferroviaria che porta da Trento a Verona. Dalle trincee austriache, esce allo scoperto un uomo, la sua sagoma si intravede appena nella luce dell’alba. È un trombettiere, suona il segnale del cessate il fuoco. Non è solo, dalle posizioni italiane si scorge nella foschia del mattino un altro soldato che sventola in alto una bandiera bianca di grandi dimensioni. È seguito, a cavallo della linea ferroviaria, da un ufficiale in divisa d’ordinanza, con un lungo cappotto abbottonato, nella mano sinistra ha una cartella. È un uomo alto e dal passo deciso. Tra i pochi militari della sua scorta vi è un ferito sorretto da un compagno, è stato colpito in precedenza nella zona di Marco, durante il primo tentativo di avvicinarsi alle linee avversarie. I mitraglieri italiani non hanno scorto la bandiera bianca, non hanno udito il segnale dato con la tromba ed hanno aperto il fuoco. Il gruppo si dirige incerto verso la postazione di difesa italiana, distante poche centinaia di metri.

L’offensiva italiana è iniziata cinque giorni prima, giovedì 24 ottobre. L’attacco alle postazioni di ciò che rimane dell’esercito Austro-Ungarico doveva iniziare il 16 ottobre, ma la piena del fiume ha consigliato di spostare in avanti la data, facendola coincidere, per ironia della sorte, con quella dell’inizio della disastrosa sconfitta subita un anno prima a Caporetto. Partecipano all’ultima battaglia anche 3 divisioni britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano. Costituiscono due armate poste ai lati dell’VIII italiana guidata dal generale Enrico Caviglia. Formano la X armata, affidata al generale inglese Frederick Cavan e la XII armata, guidata dal generale francese Jean-César Graziani. L’esercito italiano non è quello del 24 ottobre del 1917. Nei soldati, dopo la vittoria nella battaglia combattuta a metà giugno il morale è alto come la voglia di farla finita con la guerra. Anche l’esercito austro-ungarico non è più quello del 24 ottobre 2017, la fame, le malattie, lo sconforto, le spinte nazionalistiche, le diserzioni e gli ammutinamenti ne hanno minato la compattezza e la capacità di combattere, anche i cannoni di quello che fu dei più potenti eserciti sembrano essere stanchi, scriverà Fritz Weber alla vigilia dell’ultima battaglia. Il capitano, autore di molti libri sull’ultima guerra dell’impero che fu di Francesco Giuseppe, è al comando di una batteria di obici campali nel settore di Grisolera. Riuscirà a riportare a Vienna i suoi uomini ed i suoi cannoni mantenendo fede al suo giuramento di soldato. Torniamo sul Piave presso Serravalle d’Adige. Ad accogliere la pattuglia avversaria c’è uno stupito capitano, si chiama Domenico Cecaro, è nato a Parete in provincia di Caserta. Il Capitano di Stato Maggiore dell’Imperiale e Regio esercito austriaco, che comanda lo sparuto drappello, ha un nome italiano, si chiama Camillo Ruggera, è trentino, è nato a Segonzano in val Lagarina. Scrive il suo nome italiano con la lettera K al posto della C. È un militare tutto d’un pezzo, nella migliore tradizione dell’esercito austriaco, parla correttamente l’italiano. È latore di una lettera del Generale Viktor Weber Edler von Webenau, capo della Commissione di Armistizio, già costituita, ed ha l’incarico di iniziare le trattative per un immediato “cessate il fuoco”. Viene bendato e accompagnato presso il comando della 26ma divisione dove ad attenderlo c’è il generale Battistoni, anche lui trentino. La permanenza nelle linee italiane del capitano Ruggera è di breve durata, verso le ore 22 dello stesso giorno viene rispedito indietro dal Comando Supremo Italiano, che rifiuta di trattare l’armistizio (Waffenstillstand) con il latore della lettera. Il Comando Supremo Italiano, vuole far conoscere le sue condizioni solo ai delegati del governo austriaco e non al latore di una lettera, seppure ufficiale, e solo dopo aver preso precisi accordi con gli alleati. La ragione del rinvio è un’altra e gli austriaci l’hanno ben compresa. La battaglia, che si sta combattendo e che in soli pochi giorni è di fatto già giunta alla sua vittoriosa conclusione non può, anzi non deve ancora finire. Sulle ragioni che spingono il Governo italiano a non mettere fine alla battaglia di Vittorio Veneto e a posticipare l’armistizio di alcuni giorni, torneremo più avanti.

Tra il 16 ed il 19 settembre l’Armata d’oriente (Armee d’Orient) ha fatto crollare il fronte bulgaro-tedesco nei Balcani. Tra gli Alleati e la Bulgaria era stato firmato l’armistizio di Salonicco. Dal 26 settembre è ripresa l'offensiva dell'Intesa sul fronte occidentale. Anche il potente esercito tedesco è giunto al limite delle sue capacità di resistenza. Il 1° ottobre le truppe arabe guidate dall'emiro Faysal e da Thomas E. Lawrence (“Lawrence d'Arabia”, ufficiale dei servizi segreti britannici) sono entrate a Damasco ricevendo la resa formale dei turchi; Faysal viene proclamato “re degli arabi”. Il 4 ottobre gli Imperi centrali hanno dato inizio ai primi tentativi per una cessazione delle ostilità. Il Kaiser Guglielmo II, ha inviato una richiesta di armistizio al presidente americano Woodrow Wilson. Il 17 ottobre l’imperatore Carlo I ha scritto e fatto pubblicare il Manifesto dei Popoli, rivolto a tutti gli austriaci. Il Manifesto dell’ultimo imperatore, sulla cui figura terneremo in seguito, promette di riconoscere come nazione i popoli cecoslovacco, polacco, ungherese e jugoslavo. Ma è già troppo tardi. Come aveva detto Napoleone, l’Austria arriva sempre tardi, sia con un esercito, sia con un’idea. E rimane sempre indietro, d’une idèe, d’une annèe et d’une armèe. Il Manifesto non fa parola del popolo italiano delle province soggette e conquistate, perché nel giovane imperatore, che più volte ha cercato la pace, vi è la consapevolezza che non può promettere autonomia e libertà ad una nazione che l’ha già conquistata sul campo. Quello di Carlo I è il vecchio e pur avveniristico progetto di un impero federale, primo nucleo di una nuova Europa dei popoli, fortemente sostenuto da Rodolfo d’Asburgo, il giovane ed infelice figlio di Francesco Giuseppe e di Elisabetta, scomparso a Mayerling nel lontano gennaio 1889 in circostanze ancora oggi coperte da una spessa ed impenetrabile cortina di mistero. La prossima ed inevitabile sconfitta dell’Impero, solleva anche un’altra questione, quella del mantenimento dell’unità territoriale e culturale del Tirolo e del Trentino. Qualche giorno prima, l’11 ottobre 1918, l’onorevole De Gasperi, deputato alla Camera di Vienna, eletto tra i popolari nella circoscrizione di Fiemme-Fassa-Primero-Civizzano, aveva dichiarato che la popolazione trentina aspettava nella stipulazione della pace il riconoscimento dei suoi principi nazionali. Della loro reale applicazione possono ritenersi sicuri gli italiani che sono soggetti all’Austria.

La posizione politica di De Gasperi verso la duplice monarchia asburgica è cambiata negli ultimi anni. Nel 1915 all’amico Friedrich Funder, direttore del Reichspost, organo dei cristiano-sociali austriaci, che lo intervistava su cosa ne pensasse di un possibile futuro passaggio del Trentino al Regno d’Italia, così rispose: “Guardi per esempio i nostri maestri, che al nostro popolo hanno molto da insegnare; provengono da scuole austriache e, se l’Italia ottiene il Trentino, verrebbero sostituiti da maestri italiani del regno. I nostri sindaci non hanno alcun piacere a scambiare l’autonomia di cui godono in Austria con quella che hanno i primi cittadini in Italia. E dei nostri parroci lei non sentirà mai dire che siano ferventi irredentisti verso l’Italia, che è in permanente conflitto con il Vaticano. E la grande massa della nostra popolazione, i nostri produttori di vino e di frutta, che in Italia non hanno alcuna prospettiva di mercato, mentre tutti i loro interessi economici sono legati all’Austria, che cosa pensa che questa gente voglia?”.

Il 6 novembre, a guerra finita, De Gasperi si recherà a Roma dove verrà accolto, non senza diffidenza - è pur sempre un ex deputato del Parlamento austriaco -, dal sottosegretario Ferdinando Martini, da Orlando, Sonnino e Salandra. Il futuro Presidente del Consiglio Italiano non verrà mai meno al suo amore per la terra trentina per la quale otterrà in seguito un’ampia autonomia amministrativa ed economica.

De Gasperi, durante la sua permanenza alla Camera di Vienna non metteva in discussione l’appartenenza della sua terra all’Austria-Ungheria, ma si era battuto, senza successo, perché il Trentino avesse un ordinamento autonomo e non dipendesse più dal Tirolo austriaco: capì subito che la guerra esponeva quella regione a rischi enormi, scrivono gli storici Maurizio Cau e Marco Mondini.

A De Gasperi, molti anni dopo il Rathaus di Vienna attribuirà un alto riconoscimento. In una via della Faßziehergasse a Vienna nel 1981 è stata posta una lapide che così lo ricorda “In questa casa abitò il grande europeo cristiano democratico Alcide De Gasperi. 1911-1914 deputato al parlamento austriaco. 1943 fondatore della Democrazia Cristiana. 1945-1953 presidente del consiglio italiano.

La risposta di Wilson al Manifesto di Carlo I non si farà attendere. Il progetto di uno stato federale è di fatto respinto il successivo 20 ottobre dallo stesso presidente americano. Wilson sostiene la politica dell’autodeterminazione dei popoli dell'Austria-Ungheria. Non c’è più spazio per soluzioni diverse. Tre giorni prima dell’inizio dell’ultima offensiva italiana, al Consiglio della Corona il generale Arz von Straussenburg, capo di stato maggiore dell’I.R. esercito austro-ungarico, riferisce che la situazione militare non consentiva alcuna speranza di vittoria e che sarebbe stato assolutamente necessario concludere la pace "a ogni costo”. Sin dall'estate, subito dopo la vittoria del Solstizio, gli alleati dell'Italia avevano sollecitato un'offensiva sul nostro fronte, ma il generale Diaz aveva respinto le pressioni. La decisione è presa il 13 ottobre 1918 nel quartier generale di Abano Terme, alloggiato nel requisito Hotel Trieste, che dopo la guerra si chiamerà orgogliosamente “Trieste&Vittoria”. Il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando si era già scontrato con Diaz a settembre sulla opportunità e necessità di sferrare al più presto l'ultimo e decisivo attacco. Di fronte ad una richiesta di ulteriore e motivato rinvio, il presidente del Consiglio torna ad incalzare Diaz perché attacchi, dichiarando il 15 ottobre di preferire all'inazione la sconfitta e ventilandone la sostituzione con il generale Gaetano Giardino. Tra il 24 e il 29 la Battaglia, che prenderà il nome evocativo di Vittorio Veneto, è in pieno svolgimento. Il giornalista, lo storico e lo scrittore Indro Montanelli, riferisce di un episodio divertente, avvenuto in occasione della scelta del nome da dare alla imminente battaglia. Sulla veridicità dell’episodio, mai confermato per evidenti ragioni di opportunità e carattere “lessicale”, abbiamo una autorevole conferma, quella di Ferrucio Parri, che faceva parte dello Stato maggiore di Diaz. Si racconta che il miope generale Diaz, mentre cercava sulla carta la località, aiutandosi con una grossa lente di ingrandimento, spazientito per non averla trovata, si sia lasciato andare, esclamando in un linguaggio popolare, alquanto volgare e poco militaresco, già allora ampiamente diffuso “Ma ‘sto Vittorio Veneto addo' caspita sta?”. Ovviamente non fece ricorso dell’esclamazione “caspita”, usata talora come segno d’impazienza e di leggero risentimento. Tra i collaboratori del Generale Diaz vi era anche il giovane professore di lettere Giovanni Gronchi, che sarà Presidente della Repubblica nel 1955.

L’ultima battaglia è iniziata alle ore tre della notte del 24 ottobre con un violentissimo fuoco di artiglieria contro tutte le posizioni austriache e sarà, a dispetto delle previsioni, uno scontro cruento. I reparti della 7ª Divisione del generale inglese Frederick Cavan, nonostante la furia delle acque del Piave, utilizzando barconi del genio, con azione di sorpresa conquistano l'isola della Grave di Papadopoli, una formazione ghiaiosa lunga circa otto chilometri e larga due chilometri, che era la più grande di un gruppo di isolotti formati da alcuni rami minori del fiume. In alcune zone l’esercito imperiale oppone alle truppe italiane una resistenza imprevista ed efficace. Ad ogni azione italiana corrisponde una decisa contro azione austriaca. All'alba del 27 ottobre gli austriaci si riprendono il monte Pertica, ma a causa della nebbia fittissima sono bersagliati dal tiro della propria artiglieria e poi da quella italiana, tanto da essere costretti ad un celere ritiro. Tuttavia dietro le prime linee austro-ungariche che combattono tenacemente vi è il caos. L’86a brigata Schützen si rifiuta di eseguire l’ordine di passare al contrattacco, i cecoslovacchi della 26a brigata Schützen abbandonano il fronte e fuggono verso l’interno, la 40a Honved si ammutina e numerosi reggimenti di fanteria fuggono saccheggiando magazzini e depositi. Lunedì 28 ottobre la crisi e la possibile rotta dell’esercito Austro-Ungarico appaiono imminenti ed irreversibili. La mattina alcuni ponti gettati sul Piave consentono alle truppe della 3a armata di superarlo e di entrare in battaglia; tra loro vi sono inglesi e francesi. La situazione volge sempre più a favore dell’esercito italiano. Il fronte austriaco è rotto, e le truppe si ritirano. Il generale Boroevic, comandante del gruppo di armate sul Piave, telegrafa al suo Comando Supremo, il tono del telegramma è drammatico “Considero l’eventualità di sgombrare il Veneto”. Il 29 ottobre la stampa austriaca diffonde la notizia dell’ineluttabile evacuazione del Trentino lungo le valli dell’Adige da parte dell’I.R. esercito. Anche i giornali tirolesi si uniscono al coro e lanciano appelli all’unità del Tirolo. Patrioti del Tirolo – si legge -, Tirolesi tedeschi, Tirolesi italiani, Ladini! Noi avemmo sinora sotto lo scettro austriaco una Patria comune tirolese. Restate saldamente uniti affinché il paese non venga dilaniato. Le invocazioni all’unità culturale e territoriale del Tirolo non sono da tutti ascoltate. Il Consiglio Comunale di Lienz, già il 25 ottobre – la battaglia è iniziata solo il giorno prima - vota all’unanimità il distacco dal Tirolo e l’unione con il distretto della Carinzia. Nella serata nello stesso giorno in cui verrà firmato l’Armistizio, viene proclamata la Repubblica Tirolese alla cui presidenza è posto Joseph Schraffl. Il Presidente della neo Repubblica costituisce la “Guardia Nazionale Tirolese” allo scopo di arginare i saccheggi in corso da parte delle truppe in rotta e di garantire l’ordine pubblico. L’esercito avversario è in rotta, ma non ovunque. Sulle montagne non tutti i reparti austriaci accettano la sconfitta. Hanno mantenuto le posizioni per quasi quattro anni a costo di enormi sacrifici, ed ora non vogliono abbandonarle. Per gli italiani la vittoria rischia di arrivare troppo presto lasciando il Paese in una difficile ed insostenibile condizione, quella di una nazione seppure vittoriosa, comunque invasa. Vi è il sospetto per alcuni e la certezza per altri che gli Alleati possano e vogliano far pesare al tavolo della pace alcune scelte italiane, soprattutto quelle iniziali. È innegabile che il Regno d’Italia abbia combattuto un anno di meno e per un non breve periodo solo contro la sua nemica storica, ma non contro la Germania alla quale ha dichiarato guerra il 27 agosto del 1916 due anni dopo l’inizio della Grande Guerra. Appare già da ora evidente a molti politici europei la sproporzione tra le richieste avanzate e concordate con il Patto di Londra del 26 aprile 1915 e i risultati conseguiti dall’Italia sui campi di battaglia. Trento e Trieste sono ancora in mano austriaca. La pace si preannuncia tanto difficile quanto la guerra. Già si profila all’orizzonte il mito della Vittoria mutilata. Inizia così la corsa contro il tempo. Il Regio Esercito deve respingere oltre i confini prebellici l’esercito avversario, prima che entri in vigore l’armistizio. Deve superare di corsa le colonne austriache in ritirata e catturarle. Il giorno dopo, mercoledì 30 ottobre, la Commissione austriaca si presenta a Serravalle d’Adige, ha tanta fretta di firmare l’armistizio, quanta poca ne hanno gli italiani. È chiaro a tutti che la Commissione italiana vuole guadagnare tempo, prima che le armi tacciano, per poter occupare Trento e Trieste. Non si vuole che le due città, obiettivi di quattro anni di durissima e sanguinosa lotta sembrino essere un regalo del nemico, che le abbandonerà solo dopo aver firmato l’armistizio. È altresì importante che il Veneto ed il Trentino siano militarmente occupati. Gli austriaci vogliono discutere e chiudere subito la partita oramai persa. Per evitare lungaggini dovute alla necessità di tradurre gli interventi e i testi scritti, la Commissione austriaca è formata quasi per intero da ufficiali di alto grado, padroni della lingua italiana. Il colonnello Schneller, il capitano Ruggera, l’astioso Capitano di Corvetta Zwierkowski e in particolare il colonnello Seiller parlano un perfetto italiano. Quest’ultimo è figlio di una nobildonna romana, la principessa Falconieri ed ha trascorso lunghi periodi a Roma e Frascati. C’è chi sostiene che l’ufficiale si esprima con un leggero accento romanesco. La Delegazione italiana è costituita dal Tenente Generale Pietro Badoglio, dal Maggiore Generale Scipione Scipioni, dai Colonnelli Tullio Marchetti, Pietro Gazzera, Pietro Maravigna, Alberto Pariani e dal Capitano di vascello Francesco Accinni.

Giovedì 31 ottobre 1918 le delegazioni italiana e austro-ungarica si incontrano a Villa Giusti ad Abano, sede scelta per iniziare a discutere le condizioni di pace. Gli austriaci vogliono trattare i termini dell’armistizio, gli italiani sono contrari. La sera di venerdì 1° novembre arriva a Villa Giusti il corriere proveniente da Versailles con il testo dell’armistizio in lingua francese, concordato con gli alleati. Lo stesso giorno due ufficiali della marina italiana, Raffaele Rossetti e Raffaele Paolucci, entrano nella base austriaca di Pola e collocano una carica esplosiva sotto la corazzata Viribus Unitis, nave ammiraglia della marina imperiale, ceduta il giorno prima, il 31 ottobre, al nascente Stato jugoslavo. La Viribus Unitis affonda, muoiono oltre 300 uomini dell’equipaggio. I Delegati austriaci, ricevuto il testo dell’armistizio, fanno ritorno a Rovereto, per sottoporlo al loro Comando supremo. Gli alleati offrono all’Austria-Ungheria la “resa a discrezione”, ovvero la resa senza condizioni. La sera del 2 novembre alle 21 inizia la seduta finale, che si chiude il giorno successivo alle ore 3,30. Durante la discussione la delegazione austriaca sostiene l’immediata cessazione delle ostilità, ed un lasso di tempo utile, 5-10 giorni, a far arretrare le truppe al di là della linea di armistizio. Nel frattempo l’avanzata dell’esercito italiano continua. Nella valle dell’Adige è il caos, gli austriaci abbandonano numerosi automezzi e enormi quantità di materiali bellici. Le truppe in rotta danno l’assalto ai treni diretti al nord. Carlo I, informato dai propri emissari, non può fare altro che accettare le dure condizioni, imposte. Verso mezzanotte il generale Arz von Straussenburg, capo di stato maggiore, comunica telefonicamente al comando supremo austriaco di Baden la decisione assunta dall’imperatore: tutte le operazioni devono essere sospese. A Villa Giusti però si discute ancora ed animatamente sulla imposizione italiana che rinvia di 24 ore la cessazione effettiva sul campo delle operazioni militari. Il "cessate il fuoco" sarebbe entrato in vigore alle 15 del 4 novembre, mettendo così ufficialmente fine alla Grande Guerra sulla fronte italiana, dopo quasi 3 anni e mezzo. Il giorno 3 novembre, alle 15.15 le prime truppe italiane entrano a Trento. Alle 16.30, il cacciatorpediniere Audace approda a Trieste. Interi corpi d’armata austriaci in ritirata o in rotta si arrendono e vengono catturati. Domenica 3 novembre 1918 nasce la Repubblica polacca. Le condizioni dell’armistizio imposte al morente Impero austro-ungarico sono durissime: interruzione delle ostilità in terra, mare e cielo, smobilitazione delle forze armate austro-ungariche, evacuazione dei territori ancora occupati, consegna all’Italia dei territori previsti dal patto di Londra, possibilità per gli eserciti alleati di muoversi liberamente su tutte le linee di comunicazioni dell’Austria-Ungheria, rimpatrio immediato, senza reciprocità, dei prigionieri di guerra alleati. Le proteste austriache per il cessate il fuoco immediato continuano, Badoglio è fermo: l’interruzione delle ostilità si intende a partire dalle ore 15 del 4 novembre.

Le truppe austriache non oppongono più alcuna resistenza all’avanzata italiana, anche perché il quartier generale austro-ungarico nelle primissime ore di domenica 3 novembre ha cercato di forzare la mano e ha diramato, senza informare il comando italiano, l’ordine a tutti i comandi di cessare immediatamente i combattimenti e deporre le armi. L’ordine per gli italiani invece è di avanzare senza sosta per raggiungere il massimo degli obiettivi a guerra, a battaglia, a combattimenti in corso.

Anche se non direttamente, questa firma sancisce la fine del secolare Impero d'Austria-Ungheria che in pochi giorni si disgrega sotto le inarrestabili onde dei movimenti nazionalisti. Il 3 novembre il Comando Supremo dell’Esercito Italiano comunica che Le nostre truppe hanno occupato Trento e sono sbarcate a Trieste. Il tricolore sventola sul castello del Buon Consiglio e sulla torre di San Giusto. Punte di cavalleria sono entrate in Udine. Firmato: Diaz.

La nota del Comando Supremo riporta, in alto a destra, dopo la data anche l’ora, le 19. È un’informazione necessaria perché si sappia che Trento e Trieste non sono state cedute dall’avversario in rotta, ma conquistate manu militari. Lunedì 4 novembre, giorno dedicato a San Borromeo, il Santo di manzoniana memoria, che contribuì ad allontanare la peste da Milano, esce il bollettino n. 1268. Il giorno dopo sarà pubblicato su quasi tutti i giornali del Regno, molti quotidiani non potranno uscire perché manca la carta. Si racconta che Armando Diaz abbia cercato con cura quasi maniacale ogni singola parola, è consapevole che quel bollettino, l’ultimo sarebbe stato riportato in tutti i libri di storia e impresso nel marmo di ogni città. Non è solo, a scriverlo ci sono con lui uomini che faranno parlare di sé: un ufficiale toscano futuro Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi e un tenente piemontese futuro presidente del Consiglio, Ferruccio Parri. Il Bollettino, quello affisso in milioni di copie in ogni angolo del Paese, si chiude con un “Firmato: Diaz”. "Firmato" fu preso per il nome del generale vincitore e i nuovi nati, non tutti, naturalmente, sono registrati allo stato civile, fin tanto che continua la grande euforia, con il nome di Firmato seguito dal cognome. “Comando Supremo, 4 Novembre 1918, ore 12 La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantun divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX corpo d'armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, dell'VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Armando Diaz”.

Il testo originale, da dare alle stampe, doveva concludersi con il riferimento a cinque mila cannoni. A Diaz non piace, gli sembra più simile ad una nota redatta da un ragioniere, e aggiunge a penna le ultime tre righe. Il testo nella sua versione definitiva sarà fuso nel bronzo delle artiglierie catturate al nemico ed esposto in tutte le caserme e i municipi del Regno d'Italia. La guerra non si conclude con l'annuncio dell'Armistizio. Alle 14,45 di quel lunedì 4 novembre, 15 minuti prima della fine di ogni ostilità, sul Tagliamento uno squadrone di cavalleria carica un reparto austriaco in ritirata, che si difende. È una inutile carneficina. Tra i molti caduti i sottotenenti Augusto Piersanti e Achille Balsamo, entrambi “Ragazzi del ‘99”. Avevano appena 18 anni. Sono tra gli ultimi caduti italiani.

Ma la guerra non è ancora finita. Il 5 novembre 1918, in piena notte l’Alpenkorps tedesco, lo stesso che aveva combattuto nei primi giorni di guerra sul fronte alpino si sposta dalla vicina Baviera verso Innsbruck per portarsi il giorno seguente sulla linea del Brennero. L’Alpenkorps allestisce una linea di difesa, munita di molti pezzi di artiglieria, per contrastare quella che sembrava l’inevitabile avanzata dell’esercito italiano dall’Austria verso la Baviera stessa. Solo l’8 novembre i reparti germanici, sotto l’incalzare delle truppe alpine italiane, che avevano occupato il Brennero si ritirano verso Innsbruck. Lo stesso giorno vengono occupate alcune città tra cui Fiume, che non era compresa negli accordi stabiliti col Patto di Londra del 1915. In Germania è prossima la rivoluzione.

Centinaia di migliaia di persone manifestano nelle strade della capitale. I militari non intervengono. Hanno stipulato un accordo con dirigenti del Partito socialista (la Spd). Una settimana dopo l’armistizio tra il Regno d’Italia e l’Impero Austro-Ungarico, alle ore 11 del giorno 11 dell’undicesimo mese dell’anno anche la Germania si arrende. La guerra di cui ancora oggi si fatica a capirne le ragioni è finita. Lo stesso giorno, lunedì 11 novembre, l’imperatore Carlo rinuncia ad assumere qualsiasi ruolo nel costituente stato austriaco, ma non abdica "Riconosco a priori – scrive – ciò che l’Austria tedesca deciderà in merito alla sua scelta della futura sua forma di Stato. Il popolo ha assunto il proprio governo per mezzo dei suoi rappresentanti. Io rinuncio a qualsiasi partecipazione al governo dello Stato. Contemporaneamente esonero dal suo mandato il mio governo austriaco". Carlo sottoscrive il Manifesto con la consapevolezza di non abdicare. Non vuole venir meno al giuramento fatto davanti a Dio quando divenne imperatore. L’Ungheria è in piena rivolta. A farne le spese è il ministro Tisza, che viene assassinato dai rivoluzionari il 31 ottobre. L’uomo politico ungherese era stato un fiero oppositore alla guerra e aveva cercato di condurre il suo paese fuori dal conflitto. Martedì 12 novembre è proclamata la Repubblica austriaca sui territori cisleitani di lingua tedesca da un gruppo di rivoluzionari guidati da Karl Renner che ne diviene il primo cancelliere. In Austria fino al 3 aprile 1919, ci saranno due governi diversi: il governo dell'imperatore Carlo I d'Austria, il quale però, non era più funzionante e il nuovo governo repubblicano nato il 12 novembre. Solo il 3 aprile, dopo la fuga dell'imperatore che si recherà in Svizzera, avvenuta nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1919, il governo repubblicano scioglierà quello imperiale, deporrà ufficialmente Carlo I e condannerà all'esilio la famiglia Asburgo, confiscandone i beni. La figura di Carlo d’Asburgo, ultimo imperatore austro-ungarico, merita di essere ancora ricordata. Il 21 novembre 1916, subito dopo la morte dell’imperatore Francesco Giuseppe dichiarò Farò tutto ciò che è in mio potere per bandire gli orrori e i sacrifico della guerra il prima possibile, per ridare al mio popolo la benedizione della pace amaramente mancata. Giovanni Paolo II, durante un’udienza concessa all’ultima imperatrice Zita di Borbone-Parma, alla quale si rivolgeva con il titolo di “mia imperatrice”, ricordava che il suo nome Karol gli fu dato da suo padre soldato dell’impero in onore di Carlo d’Asburgo. Domenica 3 ottobre 2004, Giovanni Paolo II ha proclamato beato Carlo d’Asburgo, ultimo imperatore d’Austria e ultimo Re d’Ungheria, morto nel 1922, a soli 34 anni. Era sposato con la Serva di Dio Zita, figlia di Roberto di Borbone Parma, ultimo titolare del Ducato di Parma e Piacenza, dalla quale ebbe 8 figli. ...

e che i ragni stendano sulle armi le loro tele delicate
e della guerra si perda anche il nome
(Teocrito, IV-III a.c.)

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20 novembre
Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza

Per ricordare la Convenzione adattata dall'Assemblea generale delle nazioni Unite il 20 novembre 1989. Sono oltre 190 i Paesi che hanno ratificato la Convenzione. In Italia la ratifica è avvenuta nel 1991. Per una riflessione su questa tematica rinviamo all'intervista a Francesco Tonucci da noi realizzata nel 2016.

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Su altre due giornate di un qualche interesse anche didattico, pubblicheremo nel sito elementi di approfondimento nei giorni della loro ricorrenza:

13 novembre
Giornata mondiale della gentilezza

15 novembre
Giornata della filosofia

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