Lezione - Fare lezione

19.12.2017 11:47
Categoria: Agenda 2017/18

«Ho sempre ritenuto che la scuola

rispondesse alle esigenze di altri.»

(Ivan Illich, Conversazioni)

 

Suona la campanella e, incrociando il collega sconvolto in uscita, ti fai largo fra i corpi verso la cattedra. Intuisci che non avrebbe senso raggiungerla, come forse accadeva un tempo quando era lo scoglio cui aggrapparsi per evitare i marosi, se prima non affermi una presenza in aula. Devi incidere il tuo nome sulla corteccia dell'albero. Ehi, amici! Io sono qua. Vi mettete a sedere?

C'è chi grida per richiamare l'attenzione, chi preferisce battere le mani per non peggiorare il mal di gola, chi minaccia di scrivere "impreparato" sul registro.

Vedere gli alunni già schierati dietro ai banchi all'inizio dell'ora è un sogno di gioventù, la sequenza di un vecchio film in bianco e nero con gli scolari compunti e solenni di fronte al professore in giacca e cravatta. Oggi ti devi conquistare quell'attenzione giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Se riuscirai a farlo a mani nude, senza l'ausilio di strumenti coercitivi, allora potrai prendere la parola per spiegare cosa sono le fonti storiche.

Non esistono metodi efficaci. Dipende soltanto da te, dal tuo carattere, dalla tua sensibilità, dall'educazione ricevuta e dalle reazioni che hai elaborato nel corso degli anni. È come se in quel momento fatidico, quando i ragazzi ti guardano e ridono, potesse accadere di tutto: sono frazioni di secondo, lì ti giochi la reputazione. Se sbagli, paghi. Perdi la fiducia, cioè tutto. Però la cosa bella è che puoi recuperare. I giovani te lo concedono.

Roma, 1980. Ricordo la mia prima supplenza in una scuola privata di studenti riottosi e fascistelli che stavano in classe privi di slanci ideali perché comunque alla fine dell'anno sarebbero stati promossi grazie alle cospicue rette versate dai loro genitori. Il preside mi aveva avvertito: "La scorsa settimana hanno sfasciato le macchine da scrivere."

Io, fresco di laurea, avevo giurato a me stesso che non avrei mai insegnato. Mi ero troppo annoiato a scuola. Odiavo i gruppi. L'odore della merendina mi dava la nausea. Però dovevo guadagnare qualche spicciolo.

Portavo una leggera barba per sembrare più vecchio. Uno studente, in piedi davanti alla finestra con la sigaretta fra le labbra e il bavero del cappotto rialzato, appena mi vide esclamò torvo rivolto ai compagni riuniti intorno a lui come sodali:

"A regà, c'hanno dato er professore bolscevico."

Sentii una scossa. Come se qualcuno mi dicesse: fermati! Hai finito di vagabondare. Questo è il tuo posto. La stessa sensazione che provo quando scrivo. Andai vicino a lui e lo guardai diritto negli occhi.

Avanti, mister, dimmi quello che dobbiamo fare. Siamo io e te. Non c'è nessun altro in questo momento. Ce la risolviamo da soli. È una questione privata.

da Elogio del ripetente (Mondadori, 2013)