"Non s'aggiunga sangue al sangue"

11.09.2013 12:06
Categoria: Agenda 2013/14

Erano di 70 diverse nazionalità le 3mila vittime della strage delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Una data che, con la nostra Agenda, abbiamo voluto ricordare per onorare le vittime, ritornare su un momento cruciale della nostra storia recente, riflettere, anche come gente di scuola e come scuola, sui temi del terrorismo, della violenza, della guerra. Toni Maraini, storica dell’arte, scrittrice e poetessa, sorella di Dacia, nell'articolo scritto per noi, analizza la scia di sangue che ha lasciato l’11 settembre, una riflessione sulla guerra e sulla pace, sulla convivenza globale e le politiche per affrontare le crisi che ciclicamente riesplodono. E rilancia uno slogan del movimento “Not in our Name” (Non in nostro Nome): “Not Bombs but Books”, “Non Bombe ma Libri”, a sintetizzare che una diversa politica per affrontare gli scontri esiste. Non bombe, ma libri, e dunque formazione, progetti di sviluppo, parole di credibilità, ospedali per invalidi, medicine sdoganate dall’embargo…una riflessione che offriamo a insegnanti e studenti in questi giorni in cui il vento della guerra è tornato a soffiare prepotente.

Le Torri Gemelle: una ricorrenza per riflettere

"Non s'aggiunga sangue al sangue"

La ricorrenza dell’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York commemora un tragico evento che colpì nel profondo l’America e causò circa 3.000 vittime innocenti, morte in modo atroce. Un evento che ha suscitato nel mondo commozione, indignazione e sgomento, e segnato una svolta nella storia delle guerre e della geopolitica del XXI secolo. Ma ogni qualvolta ascoltiamo i commentatori ricorrere alle frasi “guerra di punizione” o “guerra al terrore” per giustificare la risposta che fu data a quell’attacco con una “guerra infinita” contro Afghanistan e Iraq (ma non soltanto), ricordiamoci quanto veniva scandito nelle tante manifestazioni che si svolsero allora in America.

Partecipandovi in dignitosa compattezza gli esponenti dell’Associazione delle Famiglie delle Vittime delle Torri Gemelle mostravano cartelli con su scritto: “vogliamo giustizia non vendetta”, “non vendicate i nostri morti con altre morti”. Nei cortei altri striscioni ancora affermavano a grosse lettere “non aggiungete sangue al sangue” “la guerra non è la risposta”, “niente sangue per il petrolio”, “nessuna guerra in nostro nome”.

La frase “Not in Our Name”, ‘Non in Nostro Nome’, del movimento omonimo nato nel marzo 2002, figurava in molte manifestazioni pacifiche e pacifiste che si tenevano da un capo all’altro degli Stati Uniti e si basava sui versi di una poesia di Saul Williams e Starhawk : “Not in our name/ will you wage endless war/ … Another world is possible” (‘Non farete guerra senza fine/ in nostro nome/ … Un altro mondo è possibile’). Quegli slogan erano coraggiosi messaggi di buon senso.

Cosa non facile in un clima surriscaldato da un crescendo di propaganda bellica durante il quale i bollettini di ‘stato d’allerta massima’ e un costante martellamento mediatico di filmati, foto, montaggi, proclami – accompagnati da un picco di ‘hate crimes’ contro i musulmani – ipotizzavano un imminente attacco di bombe chimiche sull’America da parte di Saddam Hussein. Sfidando potenti lobbies, l’America non belligerante - trasversale, di tutte le età, e di varie origini (le persone che il tragico mattino dell’11 Settembre lavoravano alle Torri Gemelle e vi trovarono la morte appartenevano a 70 diverse nazionalità) - teneva alto il principio etico e politico della pace e della ragione.

A San Francisco, per iniziativa pacifista, una foto di anziani, bambini e volti cordiali di donne e uomini della variegata comunità musulmana locale era stata riprodotta in grande sul retro degli autobus con la scritta “Loro Non sono il Nemico”. Dopotutto, nessun popolo arabo-musulmano, nessun capo di governo, per quanto dittatoriale come quello di Saddam Hussein, aveva rivendicato l’attacco alle Torri Gemelle.

Il vasto movimento di dissenso che attraversava l’America ribadiva l’urgenza di un dibattito pubblico – che all’inizio riguardava la legittimità dell’operazione in Afghanistan per stanare il ’ricercato mondiale numero uno’ che forse ivi si nascondeva -, e la necessità di una mediazione, o mandato, di organismi istituzionali super partes che sarebbe stato grave svuotare della loro autorevole credibilità. Molti chiedevano anche una valutazione di fatti che già sin dalle prime ore presentavano ombre e incongruenze, cosa che aveva portato, e porterà negli anni, a versioni e analisi contrastanti sulla reale dinamica di quel funesto evento.

Non sta a noi entrare qui nell’argomento, ma non possiamo non ricordare che l’operazione in Afghanistan del 2002 e poi l’invasione dell’Iraq iniziata col bombardamento di Baghdad nel marzo 2003, pro-vocarono sgomento e dolore anche tra le genti di quei lontani paesi. Aggiunsero sangue al sangue e morte alla morte. E non possiamo non domandarci a cosa sono serviti milioni di rifugiati e profughi e un milione e più di morti iracheni (cifre avanzate dal rapporto ORB per il solo periodo 2003-2007). E non unicamente iracheni visto che anche l’invasione dell’Afghanistan, col suo corteo di morti (e, secondo il rapporto ‘Starvation Update’, sette milioni tra esuli, sfollati, orfani, vedove, vittime di mine anti-uomo, carestie etc.), seguì la logica della “guerra infinita”. Dolore, morte e traumi hanno drammaticamente segnato anche i ranghi dell’esercito americano.

Analizzando guerre che si succedono da decenni, nel suo libro ‘Failed States’ Noam Chomsky ha scritto “la dimensione del catastrofico in-tervento in Iraq è di tale ampiezza che può difficilmente essere quantificata”. Scardinamento sociale e economico, incertezza politica, inquinamento e distruzioni provocati da anni di conflitto hanno soprattutto favorito in tutta l’area, e armato – scrive Chomsky - quelle correnti estremistiche che si volevano debellare, e creato conflitti locali e regressione. Alimentato anche il sentimento tra la gente di un ingiusto accanimento. Le ricadute sul processo storico di avanzamento e sviluppo e su quelle componenti sociali, culturali e politiche storicamente vitali sono state devastanti.

La poesia, più d’ogni rapporto o analisi, ha espresso il dramma della guerra. Per l’Afghanistan, ecco alcuni versi di Kaksaar Kabuli, Noozar Elias e Maria Momand:

Era una terra libera
e pacifica l’Afghanistan
oh! Era una terra bella e fiorente
la mia terra natia chiamata un tempo ‘stella dell’Asia’;
le nostre radici – essiccate
i nostri giardini –spazzati via
i nostri campi – inariditi;
Tanta morte, tanta devastazione
tanta disperazione, oggi
e ogni giorno notizie
di tragedia e di dolore.

Con stringate parole il poeta irakeno Al Haydary, partito come loro in esilio, scrive: “eccoci esuli su una strada che non conduce in alcun luogo”. Le morti innocenti delle Torri Gemelle avrebbero accettato tanto dolore in loro nome? Le loro famiglie dicono di no, e la loro saggia compostezza conferisce ad ogni ricorrenza della tragedia dell’11 Settembre una umana e solenne dignità.

Coloro che perseguono una visione pacifica e costruttiva della convivenza globale e sanno che altre politiche sono necessarie per affrontarne e gestirne le crisi, non possono non riflettere su tutto questo. Sanno che nel mondo odierno di competizione darwiniana le crisi sono, e saranno, difficili e complesse, perfino truci, e implicano decisioni di grande responsabilità, ma sanno anche quello che comporta, in una pericolosa spirale di violenze, la guerra, e ciò che invece può, con altre politiche, la non-guerra.

Con arguta sintesi a un raduno giovanile del movimento “Not in Our Name” figurava lo slogan “Not Bombs but Books”, ‘Non Bombe ma Libri’. Magari! Magari piovessero dal cielo libri, progetti di equo sviluppo, messaggi di autorevoli trattative, e parole di credibilità, e magari dal cielo si calassero non venditori d’armi e contractors ma case per gli orfani e le vedove, ospedali per gli invalidi, medicine sdoganate dall’embargo, e forse anche qualche musicante e cantastorie, quelli che un tempo percorrevano le strade per allietare la gente cantando e vendendo sogni e zucchero filato ai bambini.

Intanto, mentre il ‘pacifismo’ sembra in crisi e tace, o è discreditato, il pensiero, e la prassi, della non-violenza possono sorreggerci come propedeutica – assieme a una documentata analisi e comprensione dei fatti e della Storia - per aiutare i giovani a costruire una visione non belligerante della convivenza globale. E allora forse, proprio quando un’altra guerra incombe, la funesta data dell’attacco alle Torri Gemelle potrebbe diventare occasione di riflessione su cosa, e come, fare per non aggiungere sangue al sangue e morte alla morte.

Toni Maraini, Roma, settembre 2013

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Toni Maraini (nome d’arte di Antonella Maraini)

Storica dell’arte, scrittrice, poetessa, saggista e studiosa del Maghreb. Nata nel 1941 a Tokyo, in Giappone, dove i genitori, Topazia Alliata e Fosco Maraini, erano andati a vivere nel 1938. Tra il 1943 e il 1945 è internata in un campo di concentramento giapponese con i genitori, arrestati dopo l’8 Settembre per anti-fascismo, e con le due sorelle: Dacia e Luisa Yuki. Dopo aver studiato tra Italia, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, tra il 1964 e il 1987, vive in Marocco, insegnando all’Università di Rabat. Tornata a vivere in Italia con le sue figlie Mujah e Nour Shems, nate a Casablanca, si stabilisce a Roma dove porta avanti le sue ricerche e collabora a varie pubblicazioni e riviste internazionali.

Questi alcuni dei libri che ha scritto:

  • Anno 1424, Marsilio, 1976
  • Ultimo tè a Marrakesh, Edizioni Lavoro, 1994
  • Poema d'Oriente, Semar, 1999
  • La murata, La Luna, 1991
  • Ultimo tè a Marrakesh e nuovi racconti, Lavoro, 2000
  • Diario di viaggio in America, La Mongolfiera, 2003
  • Le porte del vento. Poesie 1995-2002, Manni, 2003
  • Ricordi d'arte e prigionia di Topazia Alliata, Sellerio, 2003
  • Fuga dall'impero. Ovvero il paradosso di Parmenide, Poiesis Editrice, 2004
  • La lettera da Benares, Sellerio, 2007
  • Da Ricòrboli alla luna, Poiesis Editrice, 2012