Migranti e barconi

04.09.2018 11:56

C'è qualche cosa che non va nell'informazione di molti fatti di cronaca che occupano per giorni le pagine dei giornali ma poi spariscono senza che ci sia stato il tempo e il modo di capire e accoglierne la sostanza più vera e più umana dei fatti. Capita così che dopo la schiuma del clamore e la strumentalizzazione cercata e voluta, le cose, scompaiono e non rivelino la loro verità più profonda, più drammatica e più inquientante. Ci sembra che qusto sia successo anche col caso della nave Diciotti bloccata nel porto di Catania. Per questo proponiamo questi due articoli apparsi su Avvenire. Il primo di Pino Ciociola del 30 agosto sui racconti dei fantasmi" salvati dalla Diciotti; il secondo è l'editoriale di Marina Corradi di domenica 2 settembre dal titolo "L'inferno delle madri".

I profughi eritrei: venduti, abusati e torturati
Pino Ciociola (Avvenire, 30 agosto 2018)

Non sono donne, sono ragazzine, hanno da 19 a 24 anni. Non sono uomini, sono ragazzi. Hanno volti scavati. Pelle ancora troppo lucida e graffiata da sale e sole. Colpiscono i loro polsi, su tutto: esili, troppo. Nell’ultimo anno mangiavano ogni due giorni un piatto di 'pasta' – a volerla definire così – da dividere in otto e bevevano un quarto di litro d’acqua a testa. Un ragazzo ha i documenti e una foto insieme alla moglie, è grosso e piazzato, adesso invece a soffiargli addosso lo faresti cadere.
Merce per trafficanti. Le loro famiglie, in Eritrea, hanno pagato 9.800 euro per farli scappare. Il viaggio, per molti di loro, è durato un anno e mezzo, sono stati venduti anche sei volte da bande ad altre bande. Molti hanno i corpi segnati. Sono i cento sbarcati sabato a tarda sera dalla 'Diciotti' e adesso accolti al 'Mondo migliore', centro a Rocca di Papa (ben lontano dal paese) gestito dalla cooperativa Auxilium. Novantadue ragazzi e otto ragazze. Quando sono arrivati, l’altra notte, l’emozione è stata forte e non soltanto per loro. Hanno sorriso e non lo facevano da chissà quanto tempo. A qualcuno le lacrime sono scese sul sorriso.
Una tonsillite. Li hanno visitati tutti, c’è voluto da mezzanotte alle nove e mezza di ieri mattina, la malattia più... grave trovata è una tonsillite con qualche placca. Nessuno ha malattie infettive, né croniche. A proposito, neppure alcuna scabbia. Piuttosto, tante pelli seccate dall’acqua salina e dal vento. E tutti molto provati, denutriti. Anemici. Un ragazzo è tornato ieri sera in infermeria, aveva tenuto nascosto un problema al ginocchio che ha da giorni, poi il dolore è cresciuto troppo e ha chiesto di nuovo del medico. Dovrebbe avere liquido nell’articolazione, forse deve aver sbattuto. O forse altro. Molti, fra loro, raccontano di torture.
Come sfingi. Sono nati tutti in Eritrea e tutti vengono dalla Libia, hanno vissuto con la violenza fuori e dentro. Le ragazze sono state stuprate e per sopravvivere si sono create una corazza. Sono diventate dure. Durissime. I loro volti sono quelli di sfingi, non mostrano emozioni, quasi non sorridono, quasi non guardano neppure negli occhi. Ciò che le ha sbranate l’hanno chiuso nell’angolo più intimo di se stesse, lo costringono a restar lì, muto. Si raggomitolano sulla sedia, le gambe tirate su, ginocchia strette al petto con le braccia intorno, dentro i pantaloni e le magliette finalmente puliti, finalmente dignitosi, che hanno distribuito la scorsa notte. A loro anche solamente tutto questo sembra vero a tratti.
L’applauso. Hanno anche finalmente riposato. In un letto. In una stanza. I fantasmi non li abbandonano ancora, lo confidano, la paura e l’ansia sono svanite. Sanno di essere in un Paese libero. Sanno di essere protetti. Hanno voluto fare un applauso, lungo, forte, agli italiani, all’Italia, al Papa, alla Chiesa, l’altra notte, poco dopo essere arrivati. Gli operatori di Auxilium li hanno abbracciati. Uno a uno. E ieri, quegli stessi operatori, avevano scritto sulle facce di non avere dormito, ma anche soddisfatta fierezza. Non è un caso se qui vengono più di duecento persone da Rocca di Papa a fare regolarmente volontariato con i migranti.
Psicologia e amici. Il tempo, qui, in questi giorni, sembra essere concetto in qualche modo relativo, elastico, amico. I cento della 'Diciotti' hanno fatto colazione, ieri mattina. Più tardi hanno pranzato. Spaesati, ancora quasi increduli, felici. Nel pomeriggio hanno iniziato i colloqui, singoli, con gli psicologi. Chiedono loro anche se hanno parenti o amici in Italia e dove, così da indirizzarli nella struttura diocesana più vicina che ha dato disponibilità all’accoglienza e sono tante, più dei posti necessari, da Sud a Nord, da una trentina di diocesi. Che i ragazzi raggiungeranno entro qualche giorno. Ogni spesa sarà coperta dalla Chiesa italiana, che già ha accolto nell’ultimo triennio oltre 26mila migranti e spesso in famiglie e parrocchie. Nel pomeriggio gli altri ospiti del centro, soprattutto nigeriani, malesi, ivoriani ed eritrei, hanno organizzato una partita di calcetto come benvenuto ai cento, che hanno apprezzato, ma non hanno giocato. Troppo stanchi, non ce l’avrebbero fatta.
Contrapposizione blanda. Nel frattempo, fuori dal centro 'Mondo Migliore', sulla via dei Laghi, andava in scena per un paio d’ore più una blanda contrapposizione, che vera e propria contestazione. Da una parte, sulla destra di fronte al cancello d’ingresso, una trentina di militanti di Casapound, sventolanti tricolori e bandiere con la tartaruga, arrivati dalla Capitale. Dall’altra, una quarantina di «antifascisti» dell’area di sinistra dalla stessa Rocca di Papa e altri paesini dei Castelli. Separati da un cordone di Polizia e Carabinieri in assetto antisommossa e da un paio di blindati. All’inizio le due 'parti' si sono mandate in coro a quel paese (eufemismo, ndr), poi se ne sono state più o meno tranquille a battibeccare di tanto in tanto.
Risultato finale, nelle parole della Questura? «Nessuna tensione e criticità registrate nel corso della manifestazione. Le forze di polizia hanno garantito l’ordine ed il diritto di manifestare di entrambe le parti, benché l’iniziativa non fosse stata regolarmente preavvisata». Perciò i partecipanti «saranno segnalati alla competente autorità giudiziaria».

L'inferno delle madri
Marina Corradi (Avvenire, 2 settembre 2018)

Ultimo rapporto della Missione in Libia dell’Onu, datato 24 agosto e diffuso ieri. «Migranti e rifugiati continuano a essere sottoposti a privazione della libertà e detenzione arbitraria in luoghi di prigionia ufficiali e non ufficiali; torture, inclusa la violenza sessuale, rapimento a scopo di riscatto, estorsione, lavoro forzato, esecuzioni illegali. Il numero dei prigionieri è aumentato a causa delle intercettazioni in mare e della chiusura delle rotte nel Mediterraneo, che impediscono le partenze. Colpevoli delle violenze sono ufficiali governativi come gruppi armati, bande criminali, contrabbandieri, trafficanti». «Le donne e le ragazze migranti – prosegue il rapporto – sono particolarmente esposte a stupro, prostituzione forzata e altre forme di violenza». Ai rappresentanti della Missione è stato tra l’altro negato l’accesso alla prigione Zuwarah, che pure è governativa. Gli occhi dell’Onu non devono superare le sue mura: a scuotere le false sicurezze di chi ama dire e gridare che le notizie riferite da quanti sbarcano in Occidente sono "esagerazioni", addirittura "invenzioni".
Proprio fra le testimonianze dei cento accolti dalla Cei e giunti a Rocca di Papa, età media 25 anni – ragazzi dunque, li chiameremmo, fossero figli nostri – ecco quella di otto giovani donne riferite a Carlotta Sami, portavoce in Italia dell’Acnur, tramite la mediatrice culturale. Le ragazze hanno detto di avere passato «l’inferno in terra», di aver subito «cose che nessuna donna dovrebbe sopportare». Stuprate e poi tenute prigioniere anche per anni, loro e altre compagne che non ce l’hanno fatta ad arrivare in Occidente. Rimaste incinte, hanno partorito in prigione bambini che sono morti di stenti a pochi mesi.
Sono parole che i media hanno pubblicato ieri, forse passate inosservate nella mole di notizie sui migranti. Ma, se ti fermi a pensarci, ti accorgi che descrivono qualcosa di più di ciò che già sappiamo, violenza, stupri, ricatti. Descrivono un inferno: delle donne, e poi delle madri. Prima violentate e recluse. Poi abbandonate in prigione per settimane e mesi; mentre dal loro giovane corpo arrivano i segni di una gravidanza. Riusciamo a immaginarci? Con negli occhi ancora le facce degli stupratori, sentendosi addosso ancora, e forse per sempre, le loro mani, queste ragazze si sono sapute madri di un figlio concepito nella violenza. Un figlio, forse, con gli stessi occhi dell’uomo che non dimenticheranno mai. Nel tempo immobile di una prigione, sentire in sé che quel figlio cresce. Si odia, il figlio di un tale sopruso, quasi fosse anche lui un invasore? È possibile. È possibile che nei lunghi mesi dell’attesa, mentre la sua presenza diventa evidente e il suo peso grava il ventre, una donna odi il figlio. Che il parto col suo dolore sembri un’altra violenza.
Ma piangono come tutti i bambini, quei bambini. Solo il seno materno li acquieta. Ci si addormentano sopra, fiduciosi. Non dilania, allora, il contrasto fra la ferocia subita e quell’abbandono inerme? Nel silenzio echeggiante di gemiti delle celle, le prigioniere in bilico su un crinale: odiare, come sarebbe umanamente anche ragionevole, oppure, tuttavia, amare. Ce ne saranno, che si stringono alla fine quel figlio al petto, spinte da un istinto antico, e perfino più forte del male.
Ma il bambino ha fame, e la madre non mangia a sufficienza, il latte le manca. È nel buio e tra lo sporco. Quei figli, forti abbastanza da venire al mondo senza esser voluti, in un tugurio, non reggono alla fame e alle infezioni. Si fanno lividi, un giorno dopo l’altro, il pianto più flebile. Dormono quasi sempre, ma è una sonnolenza malata che li tiene quieti. Come li vegliano, con quali occhi, le donne che ormai li sentono, nonostante tutto, vinte dall’istinto materno, figli? Quanto soffrono dell’annunciarsi della morte in quei volti di bambini? Una mattina trovarli accanto nel giaciglio, inerti. Piangere, per non volersene separare. Non è, quello sussurrato in poche faticose parole da povere migranti, a Rocca di Papa, l’inferno delle madri? E come mai, pure leggendo, quasi non ce ne accorgiamo? È il colore della pelle, che ci impedisce di immedesimarci?
Cose che accadono appena al di là del nostro mare. Chi fugge viene bloccato, persino riportato indietro, i porti ostentatamente sbarrati. Non possiamo accogliere tutti, dicono, ed è vero. E però lacera il pensiero di queste donne violate, e poi madri, che assistono all’agonia dei loro figli. L’inferno delle madri. Appena al di là del nostro mare.