La falsa efficienza che mina il sapere

06.04.2018 09:45

"Facciamo di tutto per accompagnare gli studenti verso il miraggio di una laurea felicemente conseguita, ma abbandoniamo sulla strada i presupposti della fatica, li allontaniamo dalla consapevolezza che non si potrebbe raccogliere alcun successo senza una severa gavetta, senza una convincente umiltà" (Giuseppe Lupo, Il Sole 24 ore, 6 aprile 2018).

Quando apparve in Italia, nei primi anni 70, il libro di Ivan Illich Descolarizzare la società, fu chiaro a tutti che si trattava di un'ipotesi pedagogica provocatoria. Non era il manifesto per l'abolizione della scuola, piuttosto un geniale resoconto degli errori perpetrati soprattutto a danno degli studenti sprovvisti di mezzi economici.
I più insicuri di fronte al futuro, gli unici davvero a cui un diploma, una laurea avrebbero conferito quella dimensione di libertà che le condizioni economiche potevano precludere.
L'idea di sottrarre l'ingerenza delle istituzioni educative dalla formazione del cittadino o di esprimere sfiducia nei confronti di esse, a maggior ragione in quegli anni di clamorosa contestazione, conteneva qualcosa di autentico e di originale, forse di visionario, com'è in tutta la produzione di Illich, che da teologo e da filosofo ha sempre cercato una via di fuga dalle sclerotizzazioni della tradizione. Descolarizzare non voleva significare contribuire a imbarbarire il tempo presente, né smantellare i paradigmi fondativi di scuole e università, ma rettificare la cattiva abitudine di credere a ciascuna di queste istituzioni come risorse poste al servizio di una società non desiderosa di cambiare strada.
Erano gli anni di don Lorenzo Milani e di Everett Reimer (un altro teorico della descolarizzazione), era la stagione in cui non pareva difficile convivere con l'azzardo delle idee. E nonostante molte di quelle suggestioni siano andate perdute nei decenni successivi, il dato interessante è che il principio della descolarizzazione, che Illich rinveniva proprio nei meccanismi di una tacita confusione tra «insegnamento e apprendimento» - sono parole tratte dall'incipit del libro -, tra «promozione e istruzione, diploma e competenza, facilità di parola e capacità di dire qualcosa di nuovo», resta valido anche oggi, dopo che tutti abbiamo attraversato o stiamo attraversando il mare della rete e della liquidità, dopo che l'ossessione per la leggerezza ha provocato lo smantellamento (questa volta nel senso vero del termine) di qualsiasi potenzialità "scolarizzante".
Ci sarebbe parecchio da riflettere sugli obiettivi che le istituzioni formative di questo Paese (parlo di quelle universitarie, ma andrebbero tenute presenti anche le altre) inseguono da anni con risultati altalenanti. Non possiamo vantarci di avere gli atenei ai primi posti nei ranking mondiali quando, in generale, il sistema formativo italiano è tra i meno accreditati in Europa. Nessuno osa mettere in discussione la nozione di un sapere condiviso e alla portata di tutti, ma ci sarebbe da chiedersi quanto gli sforzi, che le Università italiane producono in termini di competitività e di efficienza, siano dettati dall'effettiva esigenza di migliorare prestazioni e risultati e quanto invece non sia materia per una troppo sterile e generica strategia agonistica. L'impressione è che abbiamo smesso di pensare ai paradigmi del sapere come al vero codice identitario del nostro essere italiani o all'unico binario da percorrere in vista della promozione umana e della crescita morale (non solo economica) del Paese. Senza etica la cultura non serve a nulla, ma le istituzioni del sapere, anziché prodigarsi nel fornire uno spessore etico a ciò che di culturale viene prodotto, si sono smarrite dentro i labirinti di una burocrazia che ottiene gli effetti di una falsa trasparenza e di una falsa efficienza, dimenticando che il talento è qualcosa in più di un indice bibliometrico e che l'intelligenza si sottrae a qualsiasi griglia di misurazione.
Facciamo di tutto per accompagnare gli studenti verso il miraggio di una laurea felicemente conseguita, ma abbandoniamo sulla strada i presupposti della fatica, li allontaniamo dalla consapevolezza che non si potrebbe raccogliere alcun successo senza una severa gavetta, senza una convincente umiltà. A furia di inseguire le statistiche trascuriamo quanto di buono potrebbe uscire dai laboratori, dalle biblioteche, dai centri di ricerca. E ci vantiamo di moltiplicare i campi delle cosiddette offerte formative, pensando a essi come a slogan da supermercati. Ogni tanto succede di imbattersi in studenti disorientati da quelle domande che un tempo, con disprezzo, avremmo definito nozionistiche. Non abbiamo descolarizzato la società, come proponeva Illich, ma abbiamo abolito le nozioni, smantellando quell'edificio della memoria che non era soltanto un esercizio da valutare su un registro, ma un bene da preservare, un orizzonte dentro cui riconoscersi. Raccontava Sebastiano Vassalli che all'indomani della guerra, quando l'Italia era una immensa maceria e bisognava rimboccarsi le maniche per ricostruire, una delle prime radio libere trasmise il testo di un'enciclopedia geografica: L'Italia è una penisola, bagnata dal Mar Ligure, dal Mar Tirreno, dal Mar Jonio e dal Mare Adriatico... Come dire: dovendo ripartire dalle fondamenta, torniamo ai numeri primi.

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