Lavoro e ripresa, il 70% non ci crede. E senza posto fisso il futuro è un rebus

01.05.2016 18:40

Ilvo Diamanti commenta su La Repubblica del 1° maggio 2016 i dati di un sondaggio condotto da Demos-Coop sulle attese e le preoccupazioni degli Italiani rispetto al tema al centro delle celebrazioni odierne, il lavoro. Emerge lo scarto tra i timidi segnali positivi che emergono dalle statistiche, ma che ciascuno legge attraverso la lente della propria specifica condizione personale e familiare. Altissima la percentuale di chi nella ripresa continua a non crederci.

Oggi si celebra la Festa del lavoro. E dei lavoratori. Ma i lavoratori - e, in generale, gli italiani - non sembrano trovare grandi motivi per festeggiare. O meglio, vorrebbero. Secondo il sondaggio condotto dall'Osservatorio di Demos-Coop negli ultimi giorni, quasi 7 persone su 10 (nel campione intervistato) ritengono che abbia senso celebrare questa giornata. Ma, in effetti, questo sentimento sembra suggerito da nostalgia più che da speranza.
Contrariamente alle indicazioni fornite dalle statistiche dell'Istat e rilanciate dal premier Renzi, una larga maggioranza della popolazione (intervistata) non crede alla ripresa. Oltre 7 persone su 10 pensano che non sia vero. Che l'occupazione non sia ripartita. Solo l'8%, invece, ritiene che il Jobs Act abbia funzionato. Mentre, secondo la maggioranza (40%), è ancora presto per vederne i risultati. Ma oltre 3 persone su 10 sono convinte che abbia perfino "peggiorato la situazione". Le uniche "forme" di impiego effettivamente aumentate sarebbero, infatti, quelle "informali". Il lavoro nero e quello precario. Così, infatti, la pensa circa il 70% degli italiani (intervistati da Demos-Coop). I quali non vedono grandi cambiamenti nel futuro. Poco più di 2 persone su 10 (per la precisione: il 23%), infatti, contano che la loro situazione lavorativa possa migliorare, nei prossimi anni. Solo cinque anni fa questa sorta di "speranza di vita" - lavorativa - era coltivata da una componente molto più estesa: il 36%.

LE TABELLE
È un segno evidente dell'incertezza che agita la nostra società, il nostro tempo. Non solo nel lavoro. Due italiani su tre, infatti, ritengono inutile, oggi, affrontare progetti impegnativi, perché il futuro è troppo incerto e rischioso. Così, meglio concentrarsi sul presente. Cercando stabilità. Radicamento. Per questo, il lavoro preferito è il "posto pubblico". Celebrato, con ironia e realismo, da Checco Zalone, nel suo ultimo film (di grande successo) intitolato "Quo vado?". "Posto pubblico", infatti, nel linguaggio e nel discorso corrente, coincide con "posto fisso". Solo alcuni anni fa, invece, l'occupazione preferita era il lavoro autonomo, da libero professionista. Oggi non più. O meglio, non si vede "un" lavoro preferito. Impiego pubblico, lavoro autonomo e da libero professionista, nel sondaggio di Demos-Coop sono guardati con interesse, ciascuno, da circa il 20% degli intervistati. Con una preferenza per l'attività professionale fra i giovanissimi (15-24 anni) e per l'impiego pubblico fra le persone adulte, ma anche fra i "giovani adulti" (25-34 anni). C'è, dunque, un'evidente tensione fra domanda di stabilità e di autorealizzazione professionale. La domanda di stabilità appare chiara nel riferimento alla famiglia, come principale istituto di tutela. La famiglia. Assai più del sindacato e delle associazioni di categoria. Ma anche dello Stato e degli enti locali. La famiglia. È vista come difesa e sostegno: per chi ha un lavoro, stabile oppure atipico. Ma anche come un faro, per chi naviga nel mercato del lavoro, senza aver trovato una direzione definita e definitiva. In particolare, per i giovani e i giovanissimi. Le componenti maggiormente interessate - e penalizzate - dall'occupazione precaria. E, soprattutto, dalla disoccupazione. I giovani e i giovanissimi, infatti, sembrano destinati, a una posizione sociale peggiore rispetto ai loro genitori. Così la pensano, almeno, i due terzi degli italiani (intervistati da Demos-Coop). E il 73% della popolazione ritiene che i giovani, per fare carriera se ne debbano andare all'estero. Un'opinione diffusa da tempo, ma mai come oggi, se cinque anni fa, nel 2011, era condivisa dal 56%. Dunque, la maggioranza degli italiani, Eppure: 17 punti meno di oggi. I giovani e i giovanissimi: una "generazione altrove". Segno (e minaccia) di una società - la nostra - senza futuro. Che non ha pensato e organizzato un futuro. Per i propri giovani e, dunque, per se stessa. D'altronde, circa l'85% degli italiani, cioè quasi tutti, condividono l'avvertimento - o meglio: la minaccia - dell'INPS. La generazione del 1980 andrà in pensione a 75 anni. Se non più tardi.
Così i dati di questo sondaggio trovano un senso, comunque, una convergenza. Intorno all'incertezza generata dall'eclissi, se non dalla scomparsa, del futuro. Un futuro senza sicurezza (sociale), senza pensione, peraltro, rende più im- portante, anzi, necessaria, la famiglia. Polo di solidarietà intergenerazionale. Che tiene uniti genitori, figli. E nonni. Offre ai giovani, soprattutto, un sostegno nel percorso precario fra studio e lavoro. Che si sviluppa senza più confini. L'idea che i giovani, per realizzarsi a livello professionale, e prima ancora negli studi, debbano trasferirsi all'estero, si è, infatti, tradotta, da tempo, in un'esperienza di massa. E viene guardata con preoccupazione dagli adulti e ancor più dagli anziani. Dai genitori e dai nonni. Non certo dai figli e dai nipoti. Dai giovani e dai giovanissimi. I quali sono biograficamente una generazione "nomade". Migranti, anch'essi. Non per fuggire dalle guerre e dalla povertà. Non per costrizione e per necessità. Ma, ormai, per "vocazione".
E ciò spiega perché i giovani mostrino minore preoccupazione verso i flussi migratori (come ha dimostrato il recente Sondaggio 2015 di Demos-Fondazione Unipolis per l'Osservatorio sulla Sicurezza in Europa). Sono globalizzati, di fatto. Mentre i genitori e la famiglia, garantiscono loro un riferimento sicuro. Un posto dove tornare. Per poi partire di nuovo. Anche per questo, i giovani hanno meno paura della disoccupazione e della precarietà, rispetto alle generazioni più anziane. Anche se ne sono particolarmente colpiti.
E appaiono meno preoccupati dei tempi dell'età pensionabile, che si allungano. I giovani. Non hanno "nostalgia" del futuro. Perché il futuro è davanti a loro. Mentre gli adulti e gli anziani il futuro ce l'hanno alle spalle.

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