Lettera aperta di un Gufo

06.08.2014 17:31

Giovanni Orsina, professore alla Luiss ed editorialista, invia al presidente Renzi, dalle pagine de La Stampa (6 agosto 2014), una lettera aperta in cui ribatte con gustosa e fine ironia alle affermazioni del premier che in una recente intervista se l'è presa con "professori, editorialisti e opinionisti".

Egregio Presidente Renzi, in una lunga intervista pubblicata l’altroieri, che ovviamente ha avuto ampia risonanza, lei ha mosso critiche severe a «professori, editorialisti, opinionisti».
I quali sarebbero corresponsabili a suo dire della crisi del Paese, ed ha aggiunto poi una battuta ulteriore contro «i gufi professori, i gufi brontoloni, i gufi indovini». Anche se, naturalmente, non so a chi lei stesse pensando in concreto, essendo io professore, editorialista, opinionista, apprendista indovino e moderatamente gufo (brontolone no), mi son sentito chiamato in causa. E ho deciso quindi di scriverle questa, chiamiamola così, lettera aperta di un gufo a un premier. Sperando di non annoiarla troppo – visto che in quell’intervista lei si lamenta pure perché «gli editoriali agostani sono prevedibili come le occupazioni studentesche nei primi giorni di scuola».
Cominciamo dall’inizio. Negli ultimi otto mesi, signor Presidente, lei ha avuto dai media, editorialisti inclusi, un’apertura di credito senza precedenti. Un credito, lo riconoscerà, parecchio azzardato, essendo lei arrivato a Palazzo Chigi senza alcuna esperienza di amministrazione nazionale, avendo scelto collaboratori anch’essi inesperti, non avendo in Parlamento una maggioranza politica e non essendo legittimato dalle urne. Fra la nascita del suo governo e le elezioni europee non so quanti editoriali ho letto (un paio li ho anche scritti) concepiti tutti più o meno così: «Per il momento sono solo buoni propositi, di garanzie ce ne sono poche, le incognite sono legione, ma speriamo tanto tanto che ce la faccia». Pesava e pesa naturalmente la sensazione tutt’altro che infondata che l’Italia sia all’ultima spiaggia politica, e che dopo di lei non restino che l’ondata populista o le tecnocrazie europee. Pure tenuto conto della situazione, però, la benevolenza che i media hanno avuto e hanno nei suoi confronti resta comunque enorme. Se ne può rendere facilmente conto con un piccolo esperimento mentale: pensi a quel che si sarebbe detto degli 80 euro dati in campagna elettorale se lei invece che Matteo si fosse chiamato Silvio. Bene: di fronte a tutto questo, non le sembra un po’ esagerato irritarsi tanto per il bubolare di qualche gufo sparuto?
Gli indovini, in secondo luogo. Agli opinionisti vengono continuamente chieste previsioni. Noi ce la caviamo come meglio possiamo – l’arte della previsione è fra le più ostiche, e spesso prendiamo solenni cantonate. Se siamo onesti e seri, a ogni modo, le nostre previsioni cerchiamo di farle realistiche: di capire che cosa accadrà, non che cosa vorremmo che accadesse. Quando il futuro lo vediamo nero, allora, non è perché godiamo a far gli uccelli del malaugurio, ma perché siamo convinti che così sarà. In genere tendiamo a essere pessimisti, è vero. Ma questo dipende anche dalla nostra funzione, che è assai diversa da quella di chi fa politica. Il politico pensa più all’oggi che al domani, è opportunista, racconta e spesso si racconta storie che hanno un legame fragile con la realtà, minimizza i problemi. L’analista, se è onesto e serio, si sforza per quanto possibile di proporre un’immagine non partigiana del Paese, tenta di valutare le conseguenze di lungo periodo dell’azione politica, cerca di individuarne i pericoli e li denuncia.
Veniamo così alla terza questione: le nostre responsabilità di professori, editorialisti, opinionisti per com’è combinata oggi l’Italia. Responsabilità enormi, son d’accordo con lei. Perché, però? Perché non siamo stati sempre onesti e seri, perché non siamo rimasti «al di sopra della mischia» (son cent’anni dalla Grande Guerra, e giova citare il Romain Rolland del 1915), perché abbiamo piegato le nostre analisi alle urgenze della politica, non solo partecipando allo scontro apocalittico fra berlusconiani e antiberlusconiani ma contribuendo a renderlo più apocalittico ancora. Perché ci siamo intruppati nei cortei dei pifferai di Hamelin di questa parte o di quell’altra. Il nostro «cambiare verso», ora che lo scontro è finito, può consistere o nel metterci in marcia al seguito d’un nuovo pifferaio (e non c’è nemmeno l’imbarazzo della scelta, al momento), oppure nel rimetterci a fare il nostro lavoro, onestamente e seriamente. Qual è secondo lei l’opzione migliore per il Paese?
Infine, Presidente, una domanda: ma perché ci dà così tanta importanza? Capisco bene che in politica c’è sempre bisogno di un nemico con cui prendersela e che i nemici ormai scarseggiano, ma noi siamo inadatti a riempire quel vuoto. Proprio lei che approfitta pure delle tribune istituzionali per parlare disinvoltamente al Paese, con una mano in tasca, poi commette l’errore politicista di pensare che nel ventunesimo secolo l’opinione pubblica di massa la facciano gli editoriali della carta stampata? In Gran Bretagna se ne accorsero già nel 1880 che i quotidiani non spostano voti: erano tutti per i conservatori, e vinse il liberale Gladstone. Ma senza andar tanto lontano: Berlusconi pure se n’è accorto, e da un pezzo. Se lo vede in questi giorni, magari glielo chieda.

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