Burocrazia extraterrestre

08.07.2014 16:34

Un viaggio nei meandri del linguaggio burocratico, dove l'effetto esilarante di talune locuzioni è solo uno degli esiti a cui conduce una deliberata "oscurità" del lessico; in realtà i termini astrusi che si interpongono fra i diritti del cittadino e il dovere dell'amministrazione sono una manifestazione della natura profonda del potere, che consiste nel "mettersi in mezzo diventando indispensabili". Roberto Escobar presenta, su Il Sole 24 ore di domenica 6 luglio, l'ultimo libro di Gian Antonio Stella "Bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli".

La ruota non può avere spigoli, né esser triangolare. Perspicuo e lungimirante, così stabilisce il Codice della strada. Anzi, così ce ne cerziora (termine messo a verbale al Consiglio comunale di Venezia, nel gennaio 2013). I problemi nascono quando si passa alle frecce e ai fari delle moto. Qui, 75 pagine della Gazzetta Ufficiale non ci cerziorano per niente: «la visibilità della superficie illuminante, anche nelle zone che non sembrano illuminate nella direzione d'osservazione considerata, deve essere assicurata all'interno di uno spazio divergente delimitato da generatrici che seguono il perimetro della superficie illuminata», naturalmente quando si sia considerato «il conto rno della proiezione della superficie illuminante su un piano trasversale tangente alla parte anteriore del trasparente del proiettore abbagliante». Di queste contorsioni linguistiche, e di molto altro, è zeppo Bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli, che Gian Antonio Stella dedica alle malefatte tragicomiche delle burocrazie più diverse, e più perverse.
I burocrati non son tutti uguali, avverte Stella nelle prime pagine, forse per non spaventarci. Ma quel che segue è una raccolta d'orrori, sintomo quasi certo di sadismo istituzionale («Il termine di cui all'articolo 8, comma 4, del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 65, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 1989, n. 155, già differito al 28 febbraio 1992 dall'articolo 3, comma i, del decreto-legge 1° ottobre 1991, n. 377»), e talvolta anche di un'intrinseca genialità comico-linguistica che s'avvicina al «lei dica duca, io dico dica» del grande Totò («La somma delle masse massime tecnicamente ammesse deve essere pari o superiore alla massa massima tecnicamente ammessa»). Vi vien da sorridere? Allora provate voi a essere ben vivi, e a doverne convincere un burocrate che un timbro qualunque induce a considerarvi morti. Oppure, provate voi a dimostrare che vostro nonno, disperso in Russia da più di settant'anni, è morto non solo di fatto, poveruomo, ma anche di diritto. Se poi vi capita di riacquistare la vista – ammesso che l'abbiate persa –, non vi venga mai in mente di chiedere all'Inps che non vi versi più la relativa pensione d'invalidità. Siate coerenti. Ciechi eravate e ciechi avete l'obbligo di restare. Naturalmente, se non l'avete riacquistata, la vista, anno dopo anno qualche funzionario vi obbligherà a dimostrargli per via documentale che siete ancora ciechi. In ogni caso, qualunque cosa gli chiediate, dovrete prima assicurarvi che il termine relativo non sia elasso, qualunque cosa la parola significhi. E ritenetevi fortunati se non ve la dovrete vedere con «reversali da attergare a disdetta», e tanto meno con «somme da ripetere o scomputare nella fattispecie dell'impossidenza del diritto irrefragabile».
Perché i burocrati si impegnano ad appesantirci la vita con la potenza distruttrice di una barbarica «calata dei Timbri», per dirla con Ennio Flaiano? E perché, non contenti, decidono di scrivere e parlare una altrettanto barbarica antilingua, per dirla con Italo Calvino? Il già ricordato sadismo non basta a spiegarlo, almeno non completamente. Il nocciolo della questione sta forse in quello che per molti è la natura profonda del potere. Per capirci, usiamo la metafora del ponte, e delle due rive che ne sono messe in collegamento. Se ce lo lasciassero tranquillamente attraversare, come è suggerito dal l'indole stessa del manufatto, la nostra vita ne sarebbe migliorata. Ma se qualcuno ci si mette proprio a metà, e decide come, con quali documenti e a quale prezzo ci è lecito passare, allora ne è migliorata di molto la sua, di vita. Questo pare sia il potere, nella sua forma più rozza ma anche più diffusa: mettersi in mezzo, diventando indispensabili. Con tutta evidenza, il mettersi in mezzo burocratico non è solo materiale, logistico, ma è anche linguistico. Lo sapeva bene Don Abbondio, che di latinorum campava. E lo sa anche quel personaggio di Trilussa per il quale «Se vôi l'ammirazzione de l'amichi nun faje capì mai quelo che dichi». Insomma, se fra il diritto del cittadino e il dovere dell'amministrazione pubblica si infila la prepotenza di un elasso o di un attergare, il dominio (impunito) del burocrate ne esce cerziorato. Senza contare che la lentezza che ne viene imporrà alla politica di inventarsi nuove regole che sveltiscano e semplifichino, e che ovviamente torneranno a incrementare il latinorum della burocrazia.
C'è modo di sconfiggere questo potere di interposizione parassitaria, che grava su di noi in termini di denaro, tempo, salute mentale? Ci han provato in molti, ai tempi suoi addirittura Napoleone. Ma nessuno ce l'ha fatta, nemmeno un rivoluzionario come Che Guevara. Si segnala peraltro il caso dell'allora ministro Roberto Calderoli che, vestito da pompiere, diede fuoco – così disse – a 375.000 leggi inutili: cioè, a circa 350.000 più di quelle davvero promulgate dal Parlamento italiano dall'Unità in avanti. E fu quello il giorno in cui alle ruote fu permesso d'esser triangolari.

Gian Antonio Stella, Bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli, Feltrinelli, Milano, pagg. 190, € 15,00

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