Insegnare la vita in un fagiolo, la scuola deve stupire i ragazzi

04.06.2014 18:01

Il fagiolo che germoglia nel bicchiere. Un esperimento che appartiene ai ricordi di infanzia di molti di noi e che Andrea Bajani (Corriere della Sera - La Lettura - 1° giugno) richiama per avviare una riflessione sulla necessità di "rianimare" la scuola italiana facendo leva sulla motivazione che scaturisce dalla curiosità.

Alle scuole elementari da decenni si fa un gioco: si affida al bambino un fagiolo con un po’ di ovatta e un bicchiere. Gli si chiede di portarselo a casa, e di averne cura per la settimana che viene. A casa il bambino cercherà un punto che abbia luce abbastanza, e gli darà da bere perché sa che il fagiolo ha bisogno di lui. Ogni mattina si alzerà e correrà a guardarlo. Un giorno poi il fagiolo si schiuderà, e il bambino vedrà qualcosa che sbuca in mezzo all’ovatta e farà una faccia diversa da prima. È così che – grazie alla scuola – il bambino imparerà lo stupore di una vita che nasce da un’altra vita, di una forma che cambia e diventa qualcosa che prima non c’era. Poi col passare del tempo – dentro e fuori la scuola – non gli affideranno più niente. Gli ripeteranno anzi che il mondo tanto non cambia, che è inutile farsi troppe illusioni sul presente e il futuro. Gli chiederanno il diario per scriverci un voto, lo chiameranno alla cattedra per domandargli di Napoleone a Sant’Elena, lo guarderanno voltare le spalle alla classe mentre scrive sulla lavagna.
Ancora dopo, con l’approssimarsi dell’esame di maturità, vorranno sapere di continuo che cosa vuol fare da grande, e gli indicheranno le facoltà adatte a far da viatico a una vita economicamente soddisfacente. In mezzo a tutto ciò, compirà diciotto anni e per la legge sarà un adulto. E da quel momento – dopo non avergli affidato niente, né dentro né fuori la scuola – gli si chiederà di scegliere. Una domenica lui (o lei) raggiungerà il suo primo seggio elettorale, e metterà una croce sopra al Paese in cui vive. E il Paese sarà – anche – la conta di quelle crocette sopra le schede.
La scuola italiana è un luogo sfiancato da troppi discorsi mortificanti, a cui il gioco del fagiolo e dell’ovatta potrebbe dare una mano. Da un lato ci sono gli insegnanti. Insegnanti vilipesi, delegittimati, incellofanati dentro lo stereotipo avvilente dell’impiegato statale, e buttati via insieme all’acqua sporca di tutto ciò che nel pubblico evidentemente va male. Dall’altra parte ci sono gli studenti, ai quali quello stereotipo arriva, a cui addestramenti quotidiani – nelle cucine di casa, su internet, per strada, in parlamento, in televisione – hanno insegnato a non aspettarsi granché da un adulto generico. Men che meno da uno che sta seduto dietro una cattedra a insegnare cose che «tanto non servono a niente». In mezzo – tra insegnanti e studenti – c’è un fossato, dove entrambi, dalle due rive, guardano fluire il cosiddetto mondo reale come qualcosa che li riguarda ma solo nella misura in cui passa loro davanti. Gli insegnanti a spiegare faccende che il mondo tutt’intorno rubrica tra le cose superflue, e i ragazzi con le teste chinate sui banchi, a desiderare il superfluo che tutt’intorno il mondo – lo stesso mondo – propone.
Eppure poi tutte le volte che un insegnante, nonostante tutto, scavalca il fossato, in classe succede qualcosa. Lo sanno i ragazzi che alzano la testa, sorpresi loro stessi per primi quando un professore esce dalla cattedra e appoggia una cosa viva sul banco. Lo sanno, i ragazzi, e glielo si legge negli occhi, perché c’è la pasta dello sguardo che cambia. Il collo solleva il cranio verso chi parla, i piedi sistemano la sedia sotto il sedere, le orecchie raccolgono le parole e le sentono scendere centimetro dopo centimetro. E sentono quando arrivano in fondo, quelle parole, e il rumore che fanno e tutto il tempo che dura la vibrazione, quanto si distende l’eco delle parole dell’insegnante nel tempo. E lo sanno anche gli insegnanti, quelli che nonostante tutto escono dalla cattedra, saltano il fosso e affidano ai ragazzi qualcosa perché provino ad averne un po’ cura.
Può essere una frase, uno sguardo acceso, un pensiero. Perché dentro un ragazzo c’è sempre in agguato il bambino che accudiva il fagiolo, ed è lui che prende la frase, lo sguardo o il pensiero, e se lo porta a casa una volta finita la scuola. Lì prova a cercargli un posto che abbia luce abbastanza, e ovatta e acqua a sufficienza perché possa crescere bene. L’insegnante che salta il fossato conosce bene lo sguardo che viene a un ragazzo quando gli affida una cosa, perché dentro ci sono la cura e la responsabilità. E soprattutto sa che quella cosa – che sia La ginestra o la geografia – lo riguarda, che è una faccenda importante per la sua vita. E infine: dal bambino che scruta il fagiolo che gli hanno affidato a scuola bisognerebbe imparare lo stupore – che alla cura è legato – nel vedere che le cose cambiano, che il mondo non è bloccato nelle forme stereotipate che ogni giorno consegnano già cotte e confezionate. È questo che la scuola dovrebbe insegnare, prima di tutto, ritornando ad affidare cose ai ragazzi: il piacere di cercare che cosa si nasconde dietro, il dovere di aspettare, coltivarle, snidarle, vederle diventare qualcosa che non c’era.
In Germania – dove vivo al momento – dal secondo dopoguerra si è deciso che ai ragazzi bisognava insegnare a smontare congegni. La modalità era tutto sommato quella del fagiolo: affidare loro sapere, chiedere di provare a smontarlo, mettere in discussione quello che quotidianamente il mondo faceva scivolare dentro la testa. È così che da allora la lezione in classe è diventata dialettica: alzare le mani, ribattere, confrontarsi, proporre, interrogare. Ovvero: non più la lezione frontale, con l’insegnante che passa in rassegna il programma, e i ragazzi dall’altra parte dell’aula a raccogliere o schivare le sue parole in silenzio. Con o senza fossato tra loro.
Dall’inizio alla fine dell’ora, piuttosto, in Germania c’è questo ponte di parole che passa, l’insegnante che affida parole lanciandole agli altri, e gli studenti che le prendono al volo, le maneggiano piano, le osservano cercando di capire che cosa nascondono. E quando le maneggiano, ne sentono la consistenza, sentono che sono pasta buona anche per loro, per dar forma all’esistenza che hanno. È per questa ragione che in classe ci sono meno teste chine a nascondersi, che ai ragazzi la scuola non sembra un luogo di penitenza altro rispetto alla vita, ma la vita stessa, in cui transita il mondo ma non lo si guarda fluire dagli argini.
Ecco: alla scuola italiana, in questi tempi di desistenza e sfiducia, oggi forse gioverebbe provare questo gioco di alzate di mano, l’esercizio critico quotidiano, lo smontaggio di congegni, la domanda come perno dell’istruzione e dell’educazione che passa per l’aula. In fondo non è cosa nuova nemmeno in Italia: basta tornare alle elementari e imparare da quel vecchio espediente del fagiolo dentro un bicchiere con l’ovatta. Darebbe vigore a tutti quanti, come sanno i tanti insegnanti che già provano a farlo tutti i giorni. Servirebbe persino a far saltare i soliti stereotipi sulla scuola su cui persino noi che ci lavoriamo dentro a volte sfiniti, mortificati, delegittimati, ci sediamo per tirare il fiato. Basterebbe ricordarci perché in Germania la scuola è così: perché avevano visto i rischi che si corrono quando c’è uno solo che parla e tutti gli altri che in silenzio – in classe, nel seggio elettorale o con una divisa militare – eseguono gli ordini.

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