La fotografia è narrazione timida, un romanzo fatto di miniature

23.05.2014 14:49

La nascita della fotografia è una delle grandi svolte del mondo; quando si è riusciti a fermare un'immagine fuggitiva della vita è cominciato un processo che sta continuando ad estendersi vorticosamente, una vera rivoluzione - creativa, inquietante e distruttiva come tutte le rivoluzioni - nella storia del mondo. Claudio Magris (Corriere della Sera, 22 maggio) intervista sull’argomento Angelo Angelastro secondo cui la fotografia è una forma di «narrazione timida».

Forse la fotografia, arte moderna per eccellenza, smentisce una tesi fondamentale sul rapporto dei moderni e dei contemporanei con l'opera d'arte: la tesi della «perdita dell'aura», formulata da un genio anomalo e abusivo come Benjamin, uno dei grandissimi interpreti della modernità e delle contraddizioni del progresso. La riproducibilità dell'opera d'arte, la possibilità moderna di riprodurla in un numero illimitato di copie, distrugge, secondo Benjamin, l'aura, il mistero e l'incanto dell'irripetibile unicità dell'opera d'arte stessa.
La fotografia sembra la riproducibilità per eccellenza: il sorriso unico e irripetibile di un istante riprodotto e moltiplicato in migliaia e migliaia di copie a piacere, la bocca di Marylin Monroe lievemente socchiusa e piena di promesse sul mio tavolo come davanti a milioni di persone altrettanto incantate; Las Meninas di Velazquez riprodotto, secondo tecniche sempre più raffinate, in copie sempre più perfette e certo destinate ad essere perfette come l'originale e indistinguibili, se non per l'analisi chimica del materiale e del tempo rappreso in esso, dall'originale; destinate ad essere, in certo senso, un originale a pari titolo.
Ma perché ciò dovrebbe distruggere l'aura, l'incanto, l'irripetibile? Dinanzi a innumerevoli ritratti identici di Marylin Monroe nasce un incanto ogni volta nuovo e diverso, in ognuno che li guarda e nei diversi momenti in cui li guarda, così come è ogni volta diverso l'incanto che si prova guardando per la terza o la dodicesima volta la Nascita di Venere di Botticelli agli Uffizi. Anche il sorriso di una persona amata nella medesima fotografia che si prende per la ventesima volta in mano non è mai lo stesso, così come quel viso e quel sorriso di carne non sono gli stessi nelle diverse volte in cui accendono concretamente l'amore. Paolo Bozzi, il grande psicologo e percettologo senza il quale fra l'altro non avrei scritto Danubio, parlandomi delle cosiddette figure bistabili — quelle che, quando le si fissa, per un certo tempo sembrano una coppa nera su uno sfondo bianco e poi d'improvviso due facce, due profili che si guardano ghignanti — diceva che è là, nella figura, che scatta e cambia qualcosa, come un lampeggiare, un passaggio. In ogni caso, la serializzazione dell'immagine di Marylin Monroe realizzata da Warhol nulla può contro l'aura di quell'immagine, anzi la potenzia e la diffonde genialmente.
La nascita della fotografia è una delle grandi svolte del mondo; quando è stato possibile fermare, anche nelle forme embrionalmente più insicure e imperfette, un'immagine fuggitiva della vita, un frammento di quella cosa incomprensibile che è il tempo, è cominciato un processo che sta continuando ad estendersi vorticosamente, una vera rivoluzione — creativa, inquietante e distruttiva come tutte le rivoluzioni — nella storia del mondo. Il fotografo è divenuto, a seconda dei casi, il demiurgo, il testimone, il conservatore, il salvatore, lo scompositore, il falsario ovvero il narratore del mondo.

Angelo Angelastro è uno di questi narratori. Giornalista della Rai dal 1977, autore di fondamentali reportages dedicati ai viaggi nei più vari Paesi (fra i quali Cuba, il Marocco, la Cina, gli Stati Uniti, la Russia, il Giappone) e ai più diversi eventi della cultura e dello spettacolo, autore di splendide fotografie dall'irrefutabile impronta stilistica personale, egli parla di «storie», del bisogno di «esistere raccontando» e si chiede se gli è venuta prima la passione per la scrittura o per l'immagine.
Mondi miei, come dice il titolo di un suo affascinante libro arricchito da una conversazione col grande Gianni Berengo Gardin, non è soltanto una raccolta di «emozioni di un giornalista in viaggio», come dice l'onesto ma inadeguato sottotitolo, non è solo «fotogiornalismo». È fotoletteratura, letteratura per immagini che contengono tempo e narrazione del tempo; quei paesaggi insieme naturali e astratti come quadri cubisti, il viso di quella bambina sdraiata fra i sacchi, quegli incredibili volti marocchini in cui si condensano romanzi di tutta una vita, quella collina di deserto tunisino simile a una coscia femminile si leggono più come film che come fotografie; ossia come racconti, narrazioni.

In che senso, gli chiedo incontrandolo a Roma, il Suo fotografare può essere considerato un narrare?

Angelastro — Secondo me la fotografia è una forma di «narrazione timida». C'è un signore con una reflex e la sua visione del mondo da una parte. Dall'altra un luogo con i suoi «eroi». Spesso le due realtà hanno poche possibilità di comunicare fra loro ma, se solo se ne creassero le condizioni, lo farebbero volentieri. Sollecitato da un misterioso gioco di energie mentali ed emotive, ecco, dunque, maturare lo scatto. Immagine, storia, racconto. Ma si tratta di un racconto in punta di piedi, sussurrato, ipotetico, perché lo scambio umano è stato fugace e forse perfino furtivo. La mia tesi è che, se l'approccio del fotografo è incorrotto e «poetico», da quell'affabulazione mancata può nascere una narrazione. È come se qualcuno con un «disagio nel cuore» e molti interrogativi sull'esistenza mi avesse detto: «va' e racconta per noi...». Non racconta pure il romanzo la verità della vita — come lei dice ne La letteratura è la mia vendetta «mostrando e narrando le vicende di personaggi che non trovano questa verità?»

Magris — Certo, col rischio di saperne alla fine meno di loro... Ma fotografia e romanzo hanno un diverso rapporto, nel raccontare la vita, col tempo. Nel viaggio paesaggi, persone e animali sono in movimento, ci vengono incontro e si allontanano come da un finestrino di un treno in corsa, come una storia sentita per caso da un compagno di viaggio e subito perduta.

Angelastro — Il mondo ci confida continuamente i suoi segreti ma noi, il più delle volte, siamo distratti. Se torniamo a casa con qualche storia da far vivere in camera oscura o su computer, se in un viso o in una situazione abbiamo intravisto una seppur minima chance di racconto, abbiamo il sacrosanto dovere di non farla morire. Il mondo e l'uomo sono una cosa sola, non ci allontaniamo mai da noi stessi se non quando ci illudiamo di osservare dall'esterno un altro da noi che non c'è. Ho avvertito prestissimo quel «sentirsi a casa nel mondo» di cui lei parla ne L'infinito viaggiare. I luoghi vissuti sono sempre stati «dimore nel cammino della vita». Ha avuto anche lei la sensazione di non entrare in dimore completamente sconosciute e che il problema semmai è «riconoscere» i luoghi?

Magris — Il viaggio e la scrittura sono un continuo passaggio dal noto all'ignoto e viceversa. In ogni foto, dice nel dialogo con Lei Gianni Berengo Gardin, deve succedere qualcosa — qualcosa di personale ma che documenti un aspetto della vita collettiva. Potrebbe essere la definizione del romanzo...

Angelastro – Mi diverte pensare che le foto di Berengo Gardin, di Cartier Bresson o di Joseph Koudelka siano «romanzi in miniatura». O se preferisce esercitazioni narrative di ispirazione Verista. Quale altra forma d'arte può raccontare il vero di un epoca con l'attendibilità, la veridicità e insieme la libertà espressiva che la fotografia permette? A patto, naturalmente, che al di qua dell'obiettivo agisca una sensibilità sociale ed estetica, un'autentica empatia col proprio tempo.

Magris — Credo che ogni individuo rispecchi, in modo diverso, l'umanità, come l'Ognuno dei Misteri medievali. Le Sue opere, il Suo percorso sono caratterizzati da calda partecipazione ai mutamenti progressivi del mondo, ai movimenti rivoluzionari e contestativi, al cambiamento e dunque alla libertà. Ma sotto un indimenticabile foto, Marocco 1974. Reclusi nell'azzurro, si dice, del ragazzo dell'orfanotrofio fotografato: «il tuo destino è segnato». Rassegnazione all'immutabile ingiustizia?

Angelastro — Ho scelto la strada della «didascalia narrativa» ben sapendo, come dice Susan Sontag, che essa offre solo «una possibile interpretazione» dell'immagine. Nel caso dell'immagine da lei indicata ho documentato il dolore che albergava in quell'orfanotrofio del Maghreb ed ho immaginato un verosimile futuro di emarginazione per il protagonista tratto. Ho rappresentato e interpretato. Con cautela e rispetto ma alla luce delle mie convinzioni e conoscenze. Ma quella istantanea ha un importante corollario nella successiva: il ragazzo costretto nella camicia di forza sente una presenza al di là del muro che lo separa dal mondo e indirizza uno sguardo di speranza verso il fotografo. Anche qui un muto appello: «Ricordami a chi mi ha dimenticato. Ho bisogno di te».

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