Ma amarli vuol dire accettare il loro mistero

05.02.2014 09:57
Categoria: Articoli giornale

Amore per gli animali. Per provarlo, non è necessario annullare le differenze di specie, in un'omologazione in cui non si comprende se sia l'animale ad innalzarsi al livello umano o viceversa. Gabriele Romagnoli su La Repubblica-R2 del 27 gennaio

Accade, alla stessa maniera, in (quasi) tutto il mondo, all'alba: a Villa Borghese come a Central Park o al Bois de Boulogne. Uomini e donne sguinzagliano i loro cani e parlano. Dei loro cani. Come se fossero umani. Con una differenza: se fossero umani non ne parlerebbero. Non così. Nessuno si vanta di avere un figlio incorreggibile, ma tutti fanno a gara nel raccontare il livello di ingovemabilità del proprio cane. A pochi interessa capire il proprio anziano genitore, indagare come vive il declino o perché lo rimuove con una carnevalesca vecchiaia, ma tutti vorrebbero capire che cosa prova il cane, perché fa quella mossa, quel verso, che cosa significa e come è possibile interagire.
La parola più agognata da milioni di coniugi nel mondo viene invocata su questi prati del desiderio con riferimento all'animale: complicità.
Al riparo delle mura domestiche si vedono persone mature comportarsi verso un gatto come Massimo Troisi verso un vaso di ceramica in una indimenticabile scena di "Ricomincio da tre", quella in cui gli sussurrava: "Muoviti!". La parola chiave non è più "addestramento". Non si cerca di condizionare l'animale. L'intento è la "comprensione". Il fine è soave: conquistarne i cuori e le menti senza uso del rigore, non manifestando superiorità alcuna, anzi abbassandosi al livello della controparte, imparando tecniche di "dialogo".
Nel corso di uno spettacolo il comico americano Jerry Seifeld domanda: "Mettiamo che un marziano osservasse questa scena: un essere segue l'altro, ne raccoglie gli escrementi e li porta con sé mentre continua a farsi trascinare a casa, dove lo sfama. Ora: quale dei due penserebbe fosse il padrone?".
"Padrone" è un termine ormai politicamente scorretto. "Diversamente affiliato" potrebbe costituire una variante accettabile. Il cane o il gatto fa il minimo sindacale per adeguarsi a quest' altra figura, i cui sforzi sono, più che ridicoli, commoventi. La domanda non è: "Vuoi mangiare?" o "Vuoi giocare?". Piuttosto: "Vuoi mangiare, vero?", "Vuoi giocare, vero?".
La differenza è sottile eppure immensa. Quell'aggiunta finale segnala in modo trionfale quanto presunto l'avvenuto aggancio delle due stazioni orbitali: umana e animale. Si assevera non più l'intuizione, ma l'avvenuta traduzione del linguaggio. Che poi cane o gatto non rifiutino l'opzione cibo o gioco a prescindere, qualunque cosa avessero in testa, questo non rileva.
Un tempo si cercava nell'animale la compagnia. Era la scelta dei solitari, dei senza figli, di chi non aveva amici. Ora si aggiunge alla progenie, agli "amici di Facebook", alla vita affollata da una compagnia insoddisfacente, dove il livello di incomprensione reciproca è salito e la possibilità di tagliare il rapporto è stata resa più facile. Capire il cane o il gatto è uno sforzo a cui si dedicano ricerche e risorse. Nel romanzo di John Cheever "Bullet Park" un giovane uomo visita la madre in una clinica austriaca e la scopre mentre si racconta la propria vita distesa sul lettino in una seduta settimanale di autoanalisi, meno cara e ugualmente efficace dell'analisi vera e propria. Un mio amico ha scoperto la madre mentre narrava al cane capitoli della propria esistenza. Poi taceva e prendeva appunti. Di soppiatto, lui ha poi letto il quaderno: erano registrate le reazioni dell'animale, con l'accento sulla sua capacità di condividere la sofferenza, ammosciando si e flebilmente guaendo nei passaggi più dolorosi.
Come la psicanalisi cerca il trauma originario e mai il seme della felicità, così i "diversamente affiliati" vantano partecipazioni degli animali ai momenti negativi, intuizioni di malattie (documentate altresì da esperimenti scientifici) e mai una condivisa, irrazionale allegria. Anche nel film omonimo "Hachiko" aspetta invano il padrone morto, aggiungendo dolore a dolore. Che cosa stiamo davvero cercando di fare: guardare dentro di loro o farne dei riflessi di noi stessi? L'islam considera impuri i cani e purissimi i gatti (Maometto, si narra, trovando il proprio felino addormentato sull'indumento che doveva indossare ne tagliò la manica per non svegliarlo). Il cattolicesimo benedice (a volte in pubbliche cerimonie) ogni forma del creato. Le società laiche (quella americana per prima) adottano un "pet" per famiglia e lo portano con sé dall'analista, per mezz'ora di seduta a testa.
Quanto a me, ho condiviso l'esistenza con molti animali e sono fiero di non averne capito nessuno, ma di averli amati tutti proprio per la loro estraneità al manuale di reazioni umane, per l'imprevedibilità che ne faceva dei compagni di viaggio sorprendenti e inaffidabili come il destino. Mi hanno insegnato così che il verbo più importante da coniugare non è comprendere, ma accettare.