Il diritto dei disoccupati di Marco e la sua Bologna

11.11.2013 12:48
Categoria: Articoli giornale

A margine del convegno in ricordo di Marco Biagi, Roberto Napoletano raccoglie una confidenza della moglie del giuslavorista assassinato nel 2002 a Bologna; poche parole che dicono tutto sul valore di una vita e sulla profondità di un legame d'amore (Il Sole 24 ore, domenica 10 novembre 2013)

Marina Biagi se ne sta in quarta fila a sinistra quasi un po' in disparte nella Sala della Cappella Farnese, in piazza Maggiore, che si riempie venerdì scorso per ricordare Marco, suo marito e mio amico, il più innovatore dei giuslavoristi italiani freddato da alcuni colpi di arma da fuoco sotto il portone di casa a Bologna una sera di marzo del 2002.

È stata lei a chiedermi di coordinare la sessione di studi che vuole riproporre non tanto l'uomo ma l'attualità del suo straordinario impegno e mi è sembrato di cogliere subito quanto importante sia per lei che l'incontro avvenga nel Palazzo del Comune della sua Bologna («il lavoro di Marco è un'eredità che appartiene a tutti») e sancisca il filo riannodato di un dialogo «nuovo e bello» con il sindaco, Virginio Merola, e il presidente del Consiglio comunale, Simona Lembi. Per questo, pur conoscendone il carattere schivo, mi sorprende che Marina non sia seduta in prima fila, la vedo attenta, molto interessata e soddisfatta, ma comunque appartata e apparentemente felice di esserlo.

Discutiamo per due ore del lavoro lasciato colpevolmente a metà di un uomo bello dentro con due occhi da bambino e una testa che guardava lontano: le sue piccole grandi ossessioni la prima delle quali era il diritto dei disoccupati e dei più deboli. Tra un'analisi e l'altra di alcuni dei migliori giuslavoristi e economisti italiani rivivo il film della vita di un professore pragmatico con i piedi "piantati" per terra tra la gente, la forza di un disegno modernizzatore che aveva previsto molto, quasi tutto, e non appartiene a una parte politica. Sento riaffiorare dal racconto di chi lo ha conosciuto bene e ne ha condiviso le intuizioni scientifiche la profondità della sua semplicità.

Alla fine, quando sto per lasciare la Sala della Cappella Farnese, Marina si avvicina e usciamo insieme. Mi fa: «Voglio dirti una cosa, non so se è giusto, ma voglio farlo». Capisco che è contenta ma intuisco che con il cuore è da un'altra parte. «Voglio che tu sappia quello che ci siamo detti io e Marco il giorno prima del suo assassinio». Mi fermo, ascolto. «Mi ha detto: dovrei lasciare tutto ora Marina perché sono senza protezione e tira una brutta aria? Dovrei ritirarmi proprio ora che sono al posto giusto per fare qualcosa di buono per i nostri figli, i nostri giovani, le donne come te che lavorano e fanno una gran fatica, i più deboli, gli anziani e i disabili? Che cosa faccio: mollo o vado avanti?». «La mia risposta è stata sì, vai avanti, era quello che voleva» mi dice alzando gli occhi e trattenendo l'emozione. Ho voglia di chiederle se si è pentita ma non ne ho il coraggio.

 

Il Sole 24 ore, domenica 10 novembre 2013