Boninsegna in gol con gli operai della cartiera

07.11.2013 16:55
Categoria: Articoli giornale

E’ proprio da certi particolari che si giudica un giocatore. Per dire, a Roberto Boninsegna, alias Bonimba, «spietato» bomber di Inter, Juve e nazionale d'antan, pacche sulle spalle, abbracci e strette di mano vengono altrettanto naturali di dribbling, giravolte e rovesciate.

La grinta di chi in campo non ne perdonava una agli avversari, accanto agli operai della Burgo diventa commozione. La cartiera nella quale suo papà Bruno ha lavorato per 36 anni, sudando e lottando (era sindacalista, membra della Commissione interna), è ferma dallo scorso febbraio: 188 persone senza lavoro. Molti di loro, da quasi nove mesi, continuano a presidiare la fabbrica e a inventarsi di tutto per non vederla morire. Come la mostra d'arte in corso da settimane o la raccolta firme per far sì che la «fabbrica sospesa» nata dal genio di Luigi Nervi diventi monumento da tutelare.

Bobo, come lo chiamano da queste parti, che di assist ne ha fatti di memorabili (uno per tutti: quello a Rivera nella semifinale “Italia - Germania 4-3”, di Messico '70) ora spera di compiere l'ennesima prodezza: riaccendere i riflettori su questa brutta storia, una sconfitta bella e buona per la sua Mantova, e perchè no, insieme con i riflettori riaccendere pure la speranza.

Non ci sta, però, a passare per eroe: «Sono qui per mio papà» - racconta - «se poi l'incontro di oggi contribuirà a far parlare della lotta di questi lavoratori ... beh ... tanto meglio». Di aria di lotta contro «i padroni», in casa il Bobo ne ha respirata parecchio. Bruno Boninsegna era tra chi si batteva per il contratto e la salute di chi lavorava in fabbrica: «Mi ricordo quanto ha combattuto per ottenere la maschera», racconta il figlio. «Faceva il saldatore e per proteggersi metteva un fazzoletto davanti alla bocca. Poi, la sera, gli davano mezzo litro di latte, come se potesse bastare per evitare che si ammalasse. Invece, purtroppo, se n'e andato a 61 anni, con una malattia al fegato».

Ha fatto in tempo, pero, papà Bruno, a vedere curve e tribune alzarsi in piedi per i gol del suo Roberto, scoperto dagli osservatori dell'Inter mentre tirava calci sul campo di una squadra parrocchiale, il Sant'Egidio. Aveva soltanto 13 anni, ma talento da vendere: il papà, che giocava come difensore nella squadra della cartiera, disse di sì al provino e Bobo fu scelto per il vivaio nerazzurro. «Mi disse che, tanto, se con il calcio fosse andata male, un posto alla Burgo ce l'avrei avuto sempre». Ma andò alla grande, e ieri alla cartiera ci è tornato da campione, qualche giorno prima del suo settantesimo compleanno (il 13 novembre).

Portando, assieme alla solidarietà di chi non se la sente di dribblare i problemi degli altri, i tanti ricordi: dall'iniziale delusione per non aver potuto debuttare subito nell'Inter (rientro a Milano a 24 anni, dopo aver giocato nel Cagliari) o il «gol del pareggio nella finale poi vinta 4-1 dal Brasile a Messico '70, quando credevamo di poter vincere i Mondial!».

E rincuorando chi non si rassegna alla panchina: «Soltanto otto operai» - spiega Gian Paolo Franzini della Rsu - «sono riusciti a trovare un lavoro a tempo indeterminato. Noi continuiamo a lottare e ci fa piacere che Boninsegna sia in campo con noi».

I suoi piedi d'oro questa volta c'entrano poco, quello che conta è il cuore, a quanto pare d'oro pure quello. D'altronde, «un giocatore» - cantava De Gregori - «lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia».

Auguri campione.

 

Corriere della Sera, 6 novembre 2013

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