Come si impara l'educazione sentimentale?

02.09.2013 19:27
Categoria: Articoli giornale

Dalla notte dei tempi sono stati i miti a insegnare i sentimenti. Oggi può essere la letteratura, se la scuola si fa carico davvero del più delicato dei suoi compiti. Così Umberto Galimberti risponde alla lettera di un insegnante ("D La Repubblica" del 31 agosto)

Un giorno il filosofo Miguel Benasayag, insieme allo psichiatra Gérard Schmit, aprì a Parigi uno sportello per ascoltare i giovani che accusavano un disagio, un disadattamento, una demotivazione, una sofferenza, e si sorprese nel constatare che alla sua domanda: "Che cosa ti fa soffrire?" i giovani non sapevano dare una risposta. Si persuase allora che oggi la sofferenza dei giovani non è solo "psicologica", ma anche e soprattutto "culturale".

I giovani non sanno che cosa "sentono" né quando sono felici, né quando sono angosciati. Non conoscono i nomi che caratterizzano i sentimenti che provano. E come fanno a difendersi o a mettere in atto strategie di compensazione se non sanno neppure di che cosa soffrono? Su questa sua esperienza Benasayag scrisse un libro che le consiglio di leggere: “L'epoca delle passioni tristi” (Feltrinelli).

Ma dove si imparano i sentimenti? Certamente nei primi anni, in forma appena abbozzata, in famiglia, ma soprattutto a scuola, attraverso quella maturazione che conduce dall'impulso all'emozione e dall'emozione al sentimento. Questo percorso si chiama "educazione" e si distingue dall'"istruzione" che è una pura trasmissione di saperi, la quale, a sua volta, diciamolo subito, riesce solo se i maestri e i professori sono capaci di aprire agli studenti le porte del cuore, come ciascuno di noi ha potuto verificare quando studiava con piacere e passione preferibilmente le materie impartite da insegnanti capaci di accedere alla sfera emotiva dei loro studenti. Del resto già Platone avvertiva che si apprende sostanzialmente per via "erotica".

Ma vediamolo, il percorso che dall'impulso conduce all'emozione e da ultimo al sentimento. L'impulso è la più primitiva delle cariche emotive e ha come linguaggio il gesto. Gli episodi di bullismo sono l'esempio classico di ragazzi la cui maturazione emotiva si è fermata a questo stadio. Punirli, sospenderli dalla scuola non serve a niente, perché non sono in grado di distinguere con chiarezza cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è ingiusto. Questi ragazzi vanno "educati" cioè condotti (e-ducere) dall'impulso all'emozione, che è la risonanza emotiva che una mia parola, un mio gesto produce in me, in modo che, grazie a essa, io possa avvertire la differenza che a livello impulsivo non colgo.

Kant diceva che la differenza tra bene e male possiamo anche evitare di definirla, perché ciascuno la "sente" naturalmente da sé. Oggi non è più così, se è vero che alcuni ragazzi non distinguono tra corteggiare una ragazza o aggredirla sessualmente, tra parlar male di un professore o prenderlo a calci, tra non amare lo straniero o bruciarlo mentre dorme su una panchina.
Dall'emozione si passa al sentimento che non è un dato "naturale" ma "culturale". I sentimenti si imparano attraverso modelli, storie, narrazioni.

I miti greci, per esempio, descrivevano con Zeus il potere, con Atena l'intelligenza, con Apollo la bellezza, con Afrodite la sensualità, con Ares l'aggressività, con Dioniso la follia. Attraverso i miti si prendeva contatto con la dimensione sentimentale che guida la condotta degli uomini.

Oggi non possiamo più tornare ai miti, ma abbiamo il serbatoio di conoscenza dei sentimenti umani rappresentato dalla letteratura, frequentando la quale, si impara che cos'è il dolore, la gioia, l'entusiasmo, la noia, la compassione, la disperazione, in tutte le forme e le articolazioni in cui questi sentimenti si declinano.

Oggi le nostre scuole, per adeguarsi alla cultura tecnologica, tendono a marginalizzare la letteratura, per cui avremo sempre di più tecnici senz'anima, ma soprattutto uomini che conducono la propria vita senza la più pallida idea di sé e dei sentimenti che li abitano.


Umerto Galimberti
(la Repubblica, 31 agosto 2013)