La rivoluzione digitale e il «buon» totalitarismo

07.08.2013 16:27
Categoria: Articoli giornale

Su il Corriere della Sera del 6 agosto Gian Arturo Ferrari ci invita a riflettere sul rapporto tra nuove tecnologie (con gli smisurati introiti economici delle industrie del settore) e democrazia

Tra i molti e svariati fenomeni cui è stato attribuito, più o meno abusivamente, il nome di rivoluzione - termine assai ambiguo in verità, dato che vuol dire compiere un giro per tornare al punto di partenza - tra le molte rivoluzioni insomma, quella presente, elettronica o digitale che sia, è di certo una delle più singolari.

A prima vista non è che l'ultima di una lunga serie cominciata con la macchina a vapore di James Watt e poi proseguita con le fabbriche, le acciaierie, le ferrovie, l'elettricità, la chimica industriale, le automobili, il volo, la radio, il telefono, la televisione e via discorrendo. Con la regolare sequenza di innovazione scientifico-tecnologica, nuovi prodotti, nuovi consumi, nuovi mercati, nuova (molta) ricchezza, prosperità per tutti.

In breve, il Ballo Excelsior, appena turbato dalla reminiscenza di alcuni angolini oscuri (gli esplosivi, la bomba...), ma nell'insieme sempre di gran successo. La somiglianza però è solo la superficie, sotto c'è la vera e sostanziale diversità. Cioè quel che caratterizza la presente rivoluzione digitale, ossia il fatto che i consumatori non si sentono semplici fruitori, semplici beneficiari, ma attori in prima persona, protagonisti della rivoluzione stessa.

La sentono e la vivono come cosa propria, creata, agita e voluta da loro. I cari vecchi filosofi francofortesi, che inorridivano davanti alla cultura di massa (costituita ai tempi loro prevalentemente dagli altrettanto cari e vecchi western americani), possono ripone nel cassetto l'amata teoria critica.

Occorre ben altro per spiegare i processi di proiezione e identificazione dell'era digitale! Questo spostamento del baricentro modifica tutti i rapporti ed è all'origine dell'eccezionale singolarità che caratterizza la presente rivoluzione.
Siccome è fatta e sentita come propria dai consumatori, siccome appartiene a loro, è per definizione buona. Dunque chiunque manifesti perplessità o critiche, si oppone all'affermazione del bene. Siccome è buona, prima arriva e prima trionfa meglio è.

Da qui una certa inquietudine nel seguirne i progressi, un certo disappunto, anche di alcuni giornalisti intenti a segare il ramo su cui stanno seduti, nel registrare impreviste lentezze nell'avanzata per definizione irresistibile, degli ebook o dei giornali online. Siccome appartiene ai consumatori, cioè a tutti, ed è buona, è anche democratica. Di più, è la democrazia. Anzi la vera, l'unica democrazia. Ma come mai la rivoluzione digitale è così popolare, perché è così affettuosamente partecipata e condivisa? Anche qui vi sono due risposte, una di superficie e una profonda.

Quella di superficie è la gratificazione che essa regala, la più grande, il senso di onnipotenza. Ogni cosa in ogni famoso slogan. Un oggetto che sta in mano dentro il quale c'è tutto l'immaginabile, tutto lo scibile e tutto insieme. Tutti i giornali, tutti i libri, tutta la musica, tutta la televisione, tutti i film, tutte le informazioni. O quasi, ma fa lo stesso. ll totalitarismo, ma il totalitarismo buono.

La seconda risposta, la più profonda, è anche più sottile. Ha a che vedere con il suo carattere dimesso e giovanile, in jeans, il suo basso profilo, il suo non essere impositiva, autoritaria, il suo mettersi al servizio di tutti. La sua orizzontalità giovanile e democratica, contrapposta alla verticalità autoritaria e vecchia. La rivoluzione digitale non è una cosa specifica e non impone contenuti specifici. E a disposizione. Per connettere tutti con tutti, in un mondo dove non vi sono più emittenti e destinatari, ma pari che comunicano con pari, in una singolare e definitiva realizzazione pratica della libertà, dell'eguaglianza, della fraternità.

Più di ogni altra rivoluzione tecnologica, quella digitale ha una portata ideologica immensa. Il «rousseauianesimo» finalmente realizzato, il buon selvaggio digitale alla conquista del mondo. Per misurarne tutta la forza ideologica basta considerarne l'ultima e finale singolarità e cioè l'oblio della sua realtà prettamente capitalistica. Nel giubilo generale si è realizzata la più rapida e massiccia e concentrata creazione di capitale (sì, proprio lui, il caro vecchio das Kapital, il monopoly capital ...) che la storia ricordi.

Parliamo di colossi come Apple che nel 2012 ha messo insieme circa 156 miliardi di dollari di ricavi e 46 di utile. O come Google che sempre nel 2012 ha fatto 50 miliardi di ricavi e n di utile. Per non dire che non sempre è chiarissimo quante tasse paghino e dove, cioè a chi.

Tutto questo non impensierisce i più fieri contestatori e i più ferventi esecratori dei Sim, lo stato imperialista delle multinazionali di venerata memoria. Adesso che c'è, sembrano essersene dimenticati. Ma l'ideologia della rete è, per fortuna, pacifica e gioiosa. Tanto è sicura di vincere comunque. Anzi, ha già vinto.


dal Corriere della Sera, 6 agosto 2013