Don Milani, il prete che sognò di cambiare la scuola

06.08.2013 09:33
Categoria: Articoli giornale

Su La Stampa del 5 agosto Paolo Di Paolo intervista Adele Corradi, la "professoressa" destinataria della "lettera" scritta dai ragazzi di Barbiana

Se fosse ancora qui, avrebbe appena compiuto novant’anni, don Milani. Lei, che gli fu accanto negli ultimi anni a Barbiana, li compirà l’anno prossimo. Adele Corradi mi accoglie nella sua casa fiorentina, nella città alta, oltre piazzale Michelangelo. Le parlo di questa serie sulle giovinezze del Novecento spese per passione e controcorrente, mi ferma subito: «Don Lorenzo è morto a quarantaquattro anni. Io, a quaranta, quando l’ho conosciuto, mi consideravo vecchia». Mezzo secolo fa, alla fine dell’estate del 1963, la professoressa Corradi, insegnante in una scuola media pubblica a Firenze, si affacciò a Barbiana, il piccolo borgo montano frazione di Vicchio. Già arrivarci era un’impresa. Aveva sentito parlare della scuola per ragazzi poveri fondata da un prete eccentrico e malvisto negli ambienti ecclesiastici.

«Una mia amica lo conosceva, le chiedevo di portarmi con lei a Barbiana, insistevo. “Non ama i curiosi” mi diceva. Ma io non ero una curiosa. L’insegnante a cui Milani e i suoi ragazzi si sarebbero rivolti nella famosa Lettera a una professoressa ero stata io. Ero sempre entrata in classe con l’idea che insegnare fosse trasmettere sapere. Era un’idea di scuola un po’ “bancaria”, la scuola ambigua delle domande trabocchetto, della corsa a ostacoli». A Barbiana Adele avrebbe capito che il punto, per Milani, non era trasmettere conoscenze, ma fornire strumenti. «Chiunque arrivasse a Barbiana era invitato a condividere la propria esperienza. Non importava che mestiere facesse, poteva essere un medico, un idraulico, un giornalista. Se era un falegname, l’importante era che spiegasse a parole come si fa un tavolo, prima di mostrarlo. Per don Lorenzo era fondamentale la lingua: solo se sai ascoltare e capire, sei libero. In classe, leggeva il Vangelo e il giornale con lo stesso spirito, indifferente dell’autorità. Chiamava i ragazzi a intervenire, a discutere, ma non sopportava lo sfoggio di opinioni fine a se stesso, né la presunzione. All’ennesimo e immotivato “Io penso che” poteva sbottare: “Francuccio, smettila di rompere i coglioni!”».

Il priore era così, dice Adele; c’era chi si scandalizzava, ma per lui l’importante era parlare chiaro, «levarsi le bucce». Agli anni di Barbiana Corradi ha dedicato un libro molto bello, Non so se don Lorenzo (Feltrinelli), ricordi rapidi e sinceri, nessuna retorica. Affiora di don Milani, le dico, il carattere difficile. «Non direi difficile. I modi erano sempre diretti, a volte bruschi. Ma a me questo piaceva». Anche quando la trattava male? «Lì per lì mi dispiacevo, poi ci ragionavo e mi pareva che il più delle volte avesse ragione. “Ascolti, bambina piccola piccola, nata ieri…” mi interpellava.

Soltanto dopo la sua morte ho capito che aveva cento motivi a darmi di bambina». I film, i libri spesso lo fanno passare per antipatico, dice, ma era un uomo pieno di ironia. Chiedo a Adele se le pare che senza don Milani la sua vita sarebbe stata molto diversa. «Completamente. Ha cambiato il mio sguardo sulle cose. La scuola di Barbiana era già di per sé, più che una proposta, una risposta. Lassù non c’era nemmeno la strada, non c’erano acqua né luce. Un uomo, un prete, ha trasformato quel luogo in una lezione». Milani, questo giovane colto, figlio di benestanti, appassionato di pittura, che si era convertito a vent’anni, era stato spedito a Barbiana nel ’54 per via di screzi con la curia. Negli anni a Calenzano avevano già fatto parecchio rumore le sue iniziative: la scuola popolare di operai, le pagine – quasi un «j’accuse» – di Esperienze Pastorali . A Barbiana passa per «prete rosso», i suoi discorsi sulla lotta di classe, su oppressori e oppressi, scatenano un vespaio. «Quella di don Lorenzo – spiega Adele – non era militanza politica in senso stretto. Gli studenti del ’68, che dopo la sua morte avrebbero fatto di Lettera a una professoressa una bandiera, non erano i destinatari di quelle pagine. La scuola di don Milani non era quella del “6 politico”: il suo rifiuto della bocciatura era legato a una scuola dell’obbligo classista e disinteressata agli ultimi». Chiede a me, Adele, se penso che la Lettera di don Milani sia ancora valida. «Un mio nipote adolescente – aggiunge – l’ha letta e mi ha detto: zia, non c’è una parola sbagliata». Ma i suoi tanti nipoti e pronipoti si sono interessati tutti alla figura di Milani? «No, quasi nessuno» risponde Adele con sincerità disarmante. Il suo sguardo è curioso e sereno, dietro le lenti grandi. Le domando se è soddisfatta della sua vita. «Tu credi che si possa rispondere a questa domanda? Quando nel Confiteor si chiede perdono per pensieri, parole, opere e omissioni, se penso alle omissioni mi viene da piangere! La vita è fatta di omissioni: di ciò che non abbiamo capito, di ciò che non abbiamo fatto, delle richieste d’aiuto a cui non abbiamo risposto». Si dice però fortunata: «Fin da piccola passavo inosservata, e questo è sano per l’equilibrio». Non pensa troppo al passato: «Mi sono quasi dimenticata di essere stata un’insegnante. Mi preoccupo quando qualcuno si identifica troppo con il proprio mestiere. Càpita nella vita ciò che càpita. Oggi il mio impegno principale è fare ogni giorno una chiacchierata con la mia sorella novantaduenne: l’intelligenza, se non viene stimolata, rischia di spegnersi». E ai suoi tanti nipoti che cosa augura? «Di trovare la propria strada e di percorrerla con coerenza. Di essere generosi».

da La Stampa, 5 agosto 2013