Caso Brusca: quei politici senza statura

03.06.2021 12:15

"Il compito di una classe dirigente non è quello di seguire la corrente, magari in base agli algoritmi delle tendenze sui social, ma di guidare il Paese illuminandogli la strada". Lo scrive Danilo Paolini su Avvenire del 3 giugno 2021 in un articolo nel quale commenta le reazioni suscitate dalla scarcerazione del mafioso Giovanni Brusca, rinviando inoltre all'intervento con cui Giovanni Falcone, a un convegno del 1986, affrontava il tema della legislazione premiale per i pentiti di mafia.

Giovanni Brusca è stato un assassino. Così feroce da segregare e uccidere in maniera atroce un bambino di 12 anni, di premere il pulsante che in un terribile giorno di maggio fece esplodere l’autostrada per Palermo all’altezza di Capaci. Una delle ferite più profonde inferte alla nostra democrazia. Ed è certo che nessuno, mai, potrà lavare via quel sangue dal nome e dalla coscienza di Brusca. L’ex mafioso, divenuto più di vent’anni fa collaboratore di giustizia, ha scontato un quarto di secolo in carcere, poi pochi giorni fa ha ottenuto la liberazione condizionale. È già accaduto per altri 'pentiti' che hanno contribuito concretamente a colpire il mostro che hanno servito. Alcuni di loro furono complici di Brusca, quel giorno a Capaci, e sono stati liberati prima di lui.
Ristabilito così, per brevi cenni, il fatto storico e quello giuridico, della indignazione collettiva per la liberazione di Brusca colpisce non tanto l’aspetto emotivo-popolare (comprensibile) bensì le reazioni di gran parte della classe politica. Se infatti non si può pretendere da tutti l’approfondita conoscenza di fatti e leggi – anche se almeno la Costituzione andrebbe studiata di più nelle scuole – non appare accettabile ascoltare da parlamentari e capipartito affermazioni superficiali su questioni così importanti.
Delle due l’una: o non sanno, i fatti e le leggi, e sarebbe cosa grave; oppure preferiscono assecondare, quando non vellicare, reazioni scandalizzate alla ricerca di consensi, e sarebbe cosa gravissima. O non sanno quanto alcuni 'pentiti' (non tutti) hanno contribuito a smantellare cosche, apparati paramilitari e patrimoni mafiosi, oppure evitano di ricordarlo per paura di rendersi impopolari. Uno che alla paura non si arrese mai, Giovanni Falcone, eroe e martire civile, uomo e magistrato illuminato, capì per primo l’importanza di infrangere l’omertà mafiosa e di introdurre una legislazione premiale.
Oggi, in questa stessa prima pagina e a pagina 3 [vedi pagina seguente], trovate un suo intervento di 35 anni fa proprio sul tema. Non erano argomentazioni 'comode', allora come oggi. Come non lo erano le riflessioni del giovane Aldo Moro, pubblicate giorni fa nelle nostre pagine culturali, che nel 1944 invitava a lasciarsi il fascismo alle spalle con spirito di giustizia e non di vendetta.
Il compito di una classe dirigente non è quello di seguire la corrente, magari in base agli algoritmi delle tendenze sui social, ma di guidare il Paese illuminandogli la strada. Senza ovviamente cedere un millimetro sui princìpi della legalità. Una democrazia matura – la nostra Repubblica che ha compiuto 75 anni dovrebbe esserlo – per onorare i suoi eroi e le sue vittime innocenti non ha bisogno di rinnegare le leggi che le consentono di combattere, e speriamo di sconfiggere, le mafie.

MAFIA, L'IMPORTANZA DEI PENTITI SPIEGATA DA GIOVANNI FALCONE (DA AVVENIRE – 3.6.2021)

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento che il giudice Giovanni Falcone pronunciò nell’aprile 1986 a Courmayeur, al Convegno “La legislazione premiale”. Il testo torna di grande attualità nel momento in cui il dibattito sui pentiti di mafia è rilanciato dalla liberazione, dopo 25 anni, e in virtù dei benefici concessi ai collaboratori di giustizia, di Giovanni Brusca, il boss che azionò il detonatore della strage di Capaci nella quale Falcone perse la vita con la moglie e gli agenti della scorta. Il documento è stato recuperato da Giovanni Paparcuri, unico sopravvissuto all’attentato contro il giudice Rocco Chinnici, poi stretto collaboratore dello stesso Falcone e oggi custode e guida del Museo Falcone e Borsellino.

Finora – secondo un costume purtroppo tipico del nostro Paese – il fenomeno del pentitismo, specie nell’ambito della criminalità organizzata non caratterizzata politicamente, è stato vissuto in modo troppo emozionale e concitato; e le polemiche, sterili e spesso ingiustificate, hanno creato un clima certamente non favorevole per un dibattito approfondito – e soprattutto sereno... Per lunghi anni abbiamo tollerato quasi con indifferenza che la criminalità organizzata raggiungesse in Italia livelli assolutamente intollerabili per qualsiasi convivenza civile, sino a costituire un gravissimo pericolo per la stessa stabilità delle istituzioni democratiche. Le istruttorie tuttora in corso in diverse sedi giudiziarie stanno portando alla luce realtà estremamente inquietanti e particolarmente complesse, fatte di ibridi connubi fra criminalità organizzata, centri di poteri extraistituzionali e settori devianti dello Stato, che hanno la responsabilità di avere tentato ad un certo punto perfino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di avere ispirato crimini efferati.
Era scontata nell’opinione pubblica la inefficienza di polizia e magistratura – accomunate in una generale e qualunquistica valutazione negativa –, e il mitico strapotere della mafia e delle organizzazioni similari costituiva un comodo alibi, bisogna riconoscerlo, per gravi comportamenti omissivi di tanti organismi statuali. Le uccisioni, sempre più frequenti, di malavitosi, non di rado venivano ritenute – tanto ipocritamente quanto fallacemente – un fatto non dannoso per la società, perché, in siffatta maniera, si eliminavano pericolosi delinquenti; e si è perfino tollerato che, in una città come Palermo, venissero progressivamente assassinati tutti i massimi vertici delle istituzioni; fatto, questo, unico al mondo. Quando un intensificato impegno ed una migliore professionalità di settori di polizia e magistratura hanno gradualmente consentito risultati sempre più incisivi nella repressione della criminalità organizzata, ha cominciato a manifestarsi, anche in questo settore, il fenomeno del cosiddetto “pentitismo”.
Soltanto, infatti, quando lo Stato nel suo complesso ha mostrato di “voler far sul serio” ed è apparso più credibile anche agli occhi della stessa criminalità, sono intervenute le prime dissociazioni e la formale collaborazione degli imputati con la giustizia, che finalmente infrangeva il mito del- l’omertà, uno dei principali ostacoli per il raggiungimento di concreti risultati... A questo punto, un osservatore ingenuo avrebbe pensato che si sarebbe cercato in tutti i modi di favorire un fenomeno che costituisce una vera e propria mina vagante che viene ad incrinare la coesione e la impermeabilità delle organizzazioni criminose alle indagini giudiziarie. Ma per gli “addetti ai lavori” era fin troppo agevole prevedere che il pentitismo nella criminalità comune avrebbe provocato reazioni violente, e che si sarebbe tentato di ostacolarlo, utilizzando e strumentalizzando indubbi inconvenienti e pericoli e, in particolare, gli inevitabili errori che sarebbero stati commessi dagli inquirenti di fronte a situazioni indubbiamente nuove, quanto meno per le loro dimensioni...

È sufficiente rilevare che – a prescindere dalle vere ragioni del suo comportamento processuale, che possono essere le più svariate e perfino poco commendevoli – il “pentito” ben difficilmente potrà mai rientrare, per intuitive ragioni, nel circuito della criminalità, e cioè nello stesso ambiente di cui fanno parte i soggetti di cui ha denunciato, in modo eclatante, i misfatti. È da escludere, quindi, a mio parere, l’esistenza di un concreto pericolo che la legislazione premiale costituisca incentivazione della pericolosità sociale dei soggetti che hanno collaborato con la giustizia... In queste condizioni è fin troppo facile prevedere che, senza un intervento legislativo che preveda effetti favorevoli per il “pentito”, il fenomeno della collaborazione con la giustizia degli imputati è destinato ad esaurirsi in breve tempo. Se è questo che si vuole e se si ritiene che, di fronte ad una criminalità organizzata dilagante e sempre più minacciosa, lo strumento del pentitismo non rappresenti un utile mezzo di indagini istruttorie, occorre che lo si dica chiaramente affinché, per lo meno, non si ingenerino illusioni o aspettative in coloro che, sia pure per mero tornaconto personale, avevano ritenuto ingenuamente che il loro contributo all’accertamento di gravissimi crimini sarebbe stato apprezzato, prima o poi, dal Paese.
Per quanto mi riguarda, debbo esprimere il mio avviso favorevole alla introduzione di una legislazione premiale che sancisca, a determinate condizioni, specifici benefici, in termini di pena e di altri effetti processuali, a favore di chi collabora con la giustizia... Si sostiene talora che lo Stato, attraverso le dichiarazioni dei “pentiti”, viene strumentalizzato da costoro per la consumazione di sottili vendette personali, ma si dimentica che uno degli specifici compiti statuali è quello di sostituire alla vendetta la giustizia, impedendo che i cittadini ricorrano alla violenza. Inoltre, il fatto che, per la prima volta, autorevoli membri di organizzazioni criminali, che hanno sempre ritenuto disonorevole il ricorso all’autorità statuale, abbiano deciso di affidare allo Stato, implicitamente riconoscendone l’autorità, l’appagamento della loro sete di vendetta, lungi dal far gridare allo scandalo, dovrebbe far ritenere positivo questo fenomeno quale chiara espressione del declinare della tradizionale omertà...

Anche il timore che il pentitismo possa costituire una pericolosa ed illusoria scorciatoia nella via dell’accertamento della verità è, a mio avviso, infondato. Non si nega che talora non sia stato esercitato il necessario, rigoroso vaglio critico sulle dichiarazioni dei pentiti, e che le stesse siano da considerare, per ovvi motivi, delle fonti di prova sospette. Ma non mi sento di condividere le affermazioni di chi ne afferma l’inutilità o addirittura la dannosità per le indagini... Il problema della efficienza non viene, dunque toccato dalla legislazione premiale, ma ci riconduce, ancora una volta alla professionalità di polizia e di magistratura, necessaria in tema di criminalità organizzata più che in altri settori... Qui basterà ricordare che la dichiarazione del “pentito” è solo uno dei tanti mezzi a disposizione del magistrato inquirente, e che l’esito positivo di un’indagine giudiziaria dipende dall’uso sapiente dei mezzi più appropriati, per cui le ammissioni e le chiamate in correità debbono costituire orientativamente conferma di risultati probatori acquisiti o spunto per ulteriori indagini...
Certamente, non si intende dare copertura ed appoggio ad eventuali abusi ed esagerazioni che, in materia, possono essere stati commessi. Ma da ciò trarre le premesse per ostacolare il fenomeno del pentitismo sarebbe un errore di portata storica. È necessario che si discuta approfonditamente sulle eventuali norme più idonee ad assicurare che le propalazioni dei “pentiti” vengano assunte nel rigoroso rispetto della legalità democratica e del diritto di difesa. E si accerti pure col maggiore scrupolo quali possono essere i benefici più opportuni a favore dei “pentiti”, non in contrasto col principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale. Ma mi sembrerebbe assurdo che, in virtù di malintesi principi garantistici, si dovesse rinunziare allo strumento del pentitismo che, sia pure tra luci ed ombre, ha consentito finalmente una chiave di lettura dall’interno della criminalità organizzata, aprendo importanti brecce nel muro dell’omertà, finora ritenuto impenetrabile.

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