Ciò che abbiamo fatto del nostro duro dolore

31.03.2021 14:58

Rilanciamo volentieri un articolo uscito su "Avvenire" di martedì 30 marzo 2021 pubblicato da Daniele Mencarelli, uno scrittore che scrive anche per la nostra Rivista e per l’Agenda Mese.

Il momento è critico. Come di chi vede un orizzonte che non riesce mai a raggiungere, al punto da iniziare a credere che si tratti di un miraggio, o un’allucinazione.
La pandemia ha scavato solchi nell’economia delle nazioni, e cosa più ben più grave, nella psiche e nel morale di tantissime persone. Tra i sofferenti occupano un posto di rilievo, loro malgrado, quelli che in questa roulette russa con il destino hanno perso i propri familiari senza nemmeno potergli dare un ultimo saluto, qualcosa di inimmaginabile sino a poco più di un anno fa, ben oltre i limiti dell’umana pietà.
Un’altra categoria, se di categorie si può parlare, che ha subìto frontalmente il Covid-19 è senz’altro quella dei più giovani, privati della loro vita, reclusi in casa senza poter svolgere tutte quelle attività, in primis la scuola, fondamentali per la loro crescita, e il loro benessere. Non è un segreto, in molti ne stanno parlando. Pagheremo per anni quello che i nostri figli hanno vissuto in questi mesi. Quello che colpisce, però, è altro. Avendo con la mia attività un osservatorio privilegiato, che mi permette quotidianamente di incontrare, seppur a distanza, centinaia di giovani, ne voglio raccontare uno per tutti.
Scuola del nord Italia. L’incontro online è giunto al termine, quando oramai siamo ai saluti prende la parola Marco, il nome è di fantasia. Come inizia a parlare capisco perché lo abbia fatto solo alla fine, si strappa le parole di bocca una a una, con fatica enorme. Il virus gli ha portato via il nonno. Come da copione, nessuno lo ha potuto salutare, se n’è andato e basta. Oltre al cordoglio per la scomparsa del nonno, Marco soffre per altro, definirlo non è facile, si potrebbe dire che a farlo penare è il tentativo da parte di tutti di allontanarlo dal suo dolore. A partire dai genitori, in assoluta buona fede sia chiaro, il leit motiv si può riassumere in tre parole: “Non ci pensare”.
Marco, parliamo di un ragazzo di 16 anni, ride dal nervoso. Che significa non pensarci? E ammesso che sia possibile, perché? In fondo il tentativo di sotterrare il dolore è un po’ come tradire il nonno. Perché il dolore per la sua morte è grande quanto l’amore che si provava per lui. Anzi, in fondo è la stessa cosa.
La rivelazione è un animale indomabile, è lei a scegliere il quando e il come.
Marco, con parole semplicissime, dice quello che in tanti non riescono a mettere a fuoco. Ovvero il tentativo incessante della nostra epoca di ridurre il dolore a una pratica che si può e si deve omettere dalla nostra vita. Perché, in buona sostanza, non serve a niente, è un intralcio, una perdita di tempo faticosa. Allora dobbiamo giustamente fare a meno di pensarci, come? Semplice, attraverso le tante distrazioni che ci vengono offerte. Ma il dolore è il rovescio dei nostri sentimenti quando vengono attaccati, messi alla prova dal tempo, dalle tante avversità, su tutte quella più alta e ineludibile. La morte.
Negarci la sofferenza, al dunque, è negarci l’amore nella sua misura più vera e grande. Come spesso accade, sono i giovani, quelli con il cuore esposto alle intemperie, a essere nostri maestri.