Il covid ci costringe a riscoprire la politica radicale della complessità

07.11.2020 19:02

La crisi indotta dalla pandemia determina sotto molti aspetti anche una spinta potente al cambiamento. Può essere letta, fra l'altro, come "una novità che conferisce alla politica davvero compiti nuovi e sfide immense, e che la sollecitano a uscire urgentemente dalla palude dell’oscillazione tra liberismo e populismo". Il tema è al centro della riflessione di Mauro Ceruti e Francesco Bellusci sul quotidiano "Domani" del 7 novembre 2020.

Non appaia un gioco di parole: la crisi innescata dalla pandemia ha risvegliato, innanzitutto, la coscienza della crisi. Il termine “crisi”, infatti, era diventato logoro per l’uso stereotipato e i significati vaghi e variabili che lo accompagnavano. In molti casi, la parola chiave di una giaculatoria incapace di suscitare reali preoccupazioni, anche quando ricorreva nell’espressione più enfatica di “crisi di civiltà”.
La crisi sanitaria, contestualizzata nella complessa mutazione ecologica in corso, ha spalancato il sipario di un tempo nuovo.
Un tempo reso incerto dalla relativa certezza non di correre più rischi, ma di essere esposti all’avvento permanente e imprevedibile di catastrofi, che possono interrompere il corso normale delle nostre esistenze.
Catastrofi variabili per intensità ed estensione, che però facilmente e velocemente possono propagarsi dal livello locale al livello globale.
La pandemia mostra la potenza su scala planetaria dei virus, che, difatti, globalizzano l’umanità del pianeta nella sofferenza e nel pericolo per la salute, in brevissimo tempo. O, più esattamente, sono in grado di parassitare la nostra globalizzazione.
Ora, le crisi non sono solo una perturbazione, una rottura di equilibri. Possono anche rivelare tendenze nascoste, latenti o virtuali. Possono essere creatrici, consentire di tracciare nuove visioni e biforcare rispetto al passato.
Per effetto di una retroazione positiva, questa crisi potrebbe offrire uno sbocco alla crisi della politica, per esempio. Crisi di identità, di funzione, di rappresentatività, dopo che il crollo del Muro di Berlino l’aveva resa definitivamente orfana di ogni orizzonte ideologico, messianico o salvifico.

Tutta un’altra politica
A cosa abbiamo già assistito con la cosiddetta prima ondata del contagio, in varie parti del mondo, ivi compreso nei sistemi democratici più avanzati? Nel volgere di poche settimane, la politica ha mostrato una capacità di azione inedita rispetto ai vincoli dell’economia e alla logica dei mercati e anche rispetto alla possibilità di restringere le libertà dei cittadini.
Non è ancora chiaro come questa ritrovata e inaspettata centralità possa riconfigurare la politica.
Tuttavia, di colpo, appare anacronistico e tragicamente minimalista che essa continui a oscillare tra, da un lato, il ruolo di adattare le società “nazionali” alle leggi del mercato planetario, alla competitività, alla trasformazione antropologica dei cittadini in “spettatori e consumatori” e, dall’altro lato, il ruolo opportunista di limitarsi a gestire o a fomentare demagogicamente le sacche di risentimento sociale, che nascono dalle contraddizioni del presente.
Insomma, a oscillare tra globalismo e sovranismo, tra liberismo e populismo. Due modelli peraltro paradossali di “politica antipolitica”. Due modelli che ci sono stati consegnati dal passaggio tra il XX e il XXI secolo, e che ancora tengono banco, nati dalla logica della semplificazione. Infatti, nell’uno agisce l’appello ad adattarsi alla “realtà”, nell’altro l’appello radicale a rifiutare la “realtà”. In entrambi i casi, si tratta però di una realtà semplificata o banalizzata. Una realtà intesa solo economicisticamente, nel primo caso; una realtà ridotta alla cospirazione di élites contro il popolo, nel secondo caso.
Oggi, la politica riemerge nel momento in cui deve fronteggiare una crisi inedita e in cui deve prendere decisioni difficili, nel contesto dei dilemmi tra salute e lavoro, sorveglianza e appello alla responsabilità, crescita e decrescita. E dopo la vecchia accusa di inchinarsi agli imperativi della finanza globale, ora deve subire l’accusa di medicalizzare la società.
Sono le prove generali del nuovo scenario della politica post-novecentesca, che sta constatando i rischi della semplificazione e che sta imparando a misurarsi con esigenze che apparentemente si oppongono, ma che in verità rinviano a intrecci inestricabili.

La politica della protezione
Inoltre, c’è una novità che conferisce alla politica davvero compiti nuovi e sfide immense, e che la sollecitano a uscire urgentemente dalla palude dell’oscillazione tra liberismo e populismo.
La deriva potenzialmente catastrofica dei processi globali impone alla politica di proteggerci. Tuttavia, non proteggendo le singole collettività o i singoli Stati, per di più l’uno a svantaggio dell’altro. Ma creando, il più possibile, un sistema di solidarietà globale che protegga il Tutto (umanità e natura terrestri, biosfera e antroposfera) e che si ponga all’altezza del destino comune che sta avviluppando l’umanità planetaria e globalizzata. Proprio perché, come ci ricorda anche Papa Francesco, siamo tutti sulla stessa barca e nessuno si può salvare da solo.
Si tratta di percorrere sentieri non battuti, di conoscere di più questo nostro mondo inedito, facendo progredire la conoscenza complessa e facendo regredire la tentazione semplificatrice. Ma si tratta anche di agire con coraggio, di assumere decisioni, pure unilaterali, che producano uno scarto e un effetto a catena positivo. Per esempio: cosa accadrebbe se il Presidente Macron, che in un tweet recente ha riconosciuto che “il nostro destino è collettivo”, cedesse il posto di membro permanente della Francia nel consiglio di sicurezza dell’ONU a un delegato dell’Unione europea? Nei Parlamenti nazionali di ciascun paese non si potrebbero prevedere dei seggi per i rappresentanti degli organismi internazionali o, perché no, anche della Natura?
La democrazia è un regime “sperimentale”, un’invenzione permanente. Non va dimenticato. Si tratta di riprendere questa sperimentazione, per preservare la democrazia.
La raccomandazione che, un secolo fa, Max Weber faceva al “politico di professione”, di tentare l’impossibile per conseguire il possibile, non solo è ancora valida, ma va considerata come la cosa più “realistica” da fare oggi. La politica dei prossimi decenni sarà una politica umanista se sarà, più che l’arte del possibile, l’arte dell’improbabile, che riesce a cogliere le incrinature nei vincoli attuali. Se la politica è il nostro destino, come si suol dire, il destino della politica allora si legherà al destino comune degli uomini che vivono sul pianeta e alla sfida di abitare la complessità del nostro mondo.