Teniamo aperte le scuole per arginare la disuguaglianza

02.11.2020 10:25

Sul quotidiano Domani del 2 novembre 2020 l'appello di Alberto Melloni a tenere aperte le scuole, facendo i conti con la realtà ma senza dimenticare che "l’educazione non è numero, tasso, percentuale. È eguaglianza".

Sono passati otto mesi da quando il pianeta educazione - i nidi, le scuole, le università - è stato travolto dal lockdown. Un infarto che ha entusiasmato qualche cretinetti, convinto che l’istruzione nell’età dell’intelligenza artificiale si innovi trasmettendo lezioni deamicisiane via web, che ha gettato nello sconforto le famiglie con più figli che device e che ha caricato sui genitori dei disabili un peso mille volte più grande di quello che portano quotidianamente.
Un lockdown che in quel momento non aveva alternative e che a primavera ha visto manifestazioni e boutade sulla riapertura “subito”: anche scippando l’estate agli insegnanti che, dice qualcuno, tanto lavorano poco.... Impegni solenni e grandi enunciati agli Stati Generali (effettivamente c’erano solo il clero del governo e i nobili del potere, come nel 1789) messi in fila per realizzare la profezia di Fabrizio De André sulla gente che «dà buoni consigli se non può dare il cattivo esempio». 
Arrivò l’estate: con l’assalto (spesso sessista) al tentativo della ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina di razionalizzare a suon di norme la riapertura di settembre, in un sistema a regionalismo squagliato, in cui i trasporti sono stati il cordone ombelicale avvolto attorno al capino dell’anno scolastico. Ora siamo in piena seconda ondata.
Ondata europea, che sta mettendo alle corde sistemi diversi, culture politiche diverse, stanchezze e immaturità di diversa origine. Ma al centro del quale sta un dilemma fondamentale. Che non è se l’educazione deve interrompersi, ma se l’educazione (tutta) può interrompersi: perché l’educazione non è numero, tasso, percentuale.
È eguaglianza. Che è la cosa su cui oggi si deve decidere, in un quadro di incertezza che non si attenuerà per mesi. È evidente che dove le regioni e i comuni non sono state in grado di organizzare i trasporti non si può andare avanti “etsi Covid non daretur”, ma se non si decide che quattro giorni a scuola sono meglio di cinque a casa, che andare a scuola di pomeriggio è meglio che stare un giorno a casa, che collegarsi all’aula dove stanno in sei è meglio che essere tutti a casa, che dare la priorità d’ingresso – anche quotidiano – ai disabili è parte dell’articolo 3 della Costituzione si rinuncia ad un principio, che può essere coniugato con le esigenze di salute pubblica.
Perché la socialità paritaria d’aula è il solo rimedio a quel sistema castale in cui censo e cultura dei genitori decidono per te: chi si può permettere pochi giga, un tablet obsoleto, un monolocale e ha sei figli mette il figlio o la figlia in una condizione di ulteriore svantaggio rispetto alla famiglia che fornisce banda larga, “camera tua”, zero fratelli e un aiuto nell’installazione dell’account scolastico.
Questo divide ha costretto alla umiliazione di dover dichiarare il proprio stato esibendo lo sfondo del proprio collegamento, in attesa che un Dpcm obblighi tutti ad avere come sfondo virtuale la chiesa di Barbiana: ed è a questa ingiustizia che si rimedia resistendo sull’apertura delle scuole e lasciando la chiusura come extrema ratio.
Non tutte, non sempre, non per tutti, ma senza impulsività governatoriali, senza massimalismi, senza narcisismi churchilliani, senza rigidità, senza illusioni, senza tentativi di coprire così il naufragio di tanti settori lasciando i banchi vuoti. Sapendo che non battersi per posticipare nella scuola i tempi del peggio che potrà venire, è peggio.

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