Il ragazzo del buio "La mia vita in una stanza"

01.06.2018 11:22

"Nella sua camera di adolescente in cui si è autorecluso da oltre due anni, Paolo, 16 anni, si sfida con cento flessioni al giorno." (Maria Novella De Luca su La Repubblica del 1° giugno 2018)

Nella sua stanza-rifugio Paolo non alza mai le tapparelle. Vetri schermati, odore di chiuso, tende tirate. "La luce mi disturba. Meglio il buio. Tanto non ho orari. Gioco tutta la notte. C'è silenzio. Soltanto noi che ci sfidiamo in Rete. Oltre quelle finestre c'è gente che non mi piace. In questa grotta mi sento tranquillo". Nella sua camera di adolescente in cui si è autorecluso da oltre due anni, Paolo, 16 anni, si sfida con cento flessioni al giorno. "Seguo un video dell'esercito. Così resto in forma, mi stanco e dormo". Non fanno così anche detenuti in cella? Paolo ammette ironico: "Sì, sono come un carcerato". Il tirassegno, le scarpe in giro, i vestiti sul letto, i fumetti, ma anche il fucile e il giubbotto per "Softair" conservati con cura. Tutto è in penombra. Dove mangi? "Mio padre mi passa il vassoio, lo appoggio qui, vicino al computer". Perché non siedi a tavola con lui? "Perché ci sarebbe un silenzio di tomba". Ma un sogno ce l'hai? "Vorrei far volare i droni". Ossia gli aquiloni dei ragazzini del mondo 2.0.
Una villetta di Roma Sud, quartieri nuovi di periferia. Paolo, nome di fantasia, occhi neri e capelli scuri, aria gentile e lineamenti delicati, apre la porta della sua prigione senza sbarre di ragazzo "hikikomori". Nome giapponese per indicare uno degli oltre centomila adolescenti italiani che all'improvviso, o lentamente giorno dopo giorno, hanno scelto di confinare il loro cielo in una stanza. Ragazzini che si isolano dalla famiglia, non rispondono più agli amici, abbandonano la scuola e restano in contatto unicamente con l'universo virtuale del web. Confondono il giorno con la notte, consumano i pasti da soli, si trasformano in eremiti domestici, ma sono campioni di gaming e di giochi in Rete.
Epidemia silenziosa di disagio sociale la definiscono gli esperti, il primo a codificarla è stato lo psichiatra giapponese Tamaki Saito negli anni Ottanta, nel Sol Levante gli "hikikomori" sono un milione, l'1% della popolazione, quasi una emergenza nazionale. Valicare le sbarre invisibili delle loro prigioni è quasi impossibile, ma Paolo, incredibilmente, invece, per un pomeriggio la sua porta l'ha aperta. E ha anche accettato, seppure schermato, di farsi fotografare. Come se in fondo, da qualche parte, il suo cuore volesse saltare oltre l'ostacolo.
Il letto sfatto incassato nell'armadio, gli scatoloni di un trasloco recente, la postazione del computer è invece linda e ordinata. "Ecco, io vivo qui, mio padre sta di là, con il nostro cane. Non esco da due anni, da quando ho lasciato la scuola. Ogni tanto faccio qualche passeggiata, il mondo esterno non mi interessa, non mi dà stimoli. Anzi un po' mi fa schifo. A noi giovani dicono sempre che non c'è futuro, non c'è lavoro. E allora a che serve studiare? Ma ho invece un sacco di amici di tutto il mondo in Rete, facciamo tornei anche con squadre di 50 giocatori, l'altra notte sono andato a dormire alle cinque ma abbiamo vinto". Un lutto grave nella sua vita di bambino, ma poi un'infanzia serena, un papà impegnato nel sociale che rimasto vedovo si dedica anima e corpo al suo unico figlio. Ma qualcosa in Paolo si rompe all'ingresso nella scuola superiore, istituto tecnico informatico. Anche se per Paolo, come per molti altri "hikikomori" la vera origine dell'autoreclusione resta misteriosa. Ma il dato comune è il rifiuto della prestazione. Scendere dal treno in corsa della società, dove chi non è al passo è "sfigato". Seduto sul suo letto, mentre mostra con orgoglio il fucile con cui andava a giocare a "Soft Air", (simulazione dal vivo di tattiche di guerra), una perfetta ricostruzione di "M4" in dotazione alle forze speciali americane, Paolo prova a guardare dentro la sua prigione. "In classe mi sentivo a disagio, mi annoiavo, stavo sempre solo nel mio banco, non avevo legato con i compagni, i miei amici d'infanzia erano in scuole diverse. Un computer io lo so smontare, rimontare, potenziare, ma di tutte le altre materie non mi importava nulla. Bullismo? No, nessuno mi ha perseguitato, del resto non ho mai dato fastidio, però nessuno mi cercava. Anche i prof mi ignoravano, era come se fossi invisibile".
Nella sua stanza-grotta Paolo ascolta le colonne sonore di Hans Zimmer, divora film e fumetti, oggi non gioca più a Fortnite, "roba da bambini" dice, la nuova passione è "Counter-strike". "Tra noi gamers c'è rispetto, onore, siamo sempre in contatto, anche la notte, siamo una squadra, con loro sono felice, mi danno stimoli, mi fanno sentire vivo. Per questo vorrei entrare nell'esercito: per ritrovare questa emozione". Chissà. Per adesso il cielo di Paolo sembra ancora ben chiuso nella sua stanza di hikikomori. "Non vi so spiegare perché, ma piano piano ho avuto un rifiuto per quella classe, non studiavo più, non volevo più uscire la mattina, ero felice soltanto quando tornavo a casa e potevo chiudermi con il mio computer. Mio padre era al lavoro, mia nonna non diceva niente, il mio ritiro è cominciato così".
Carlo, papà di Paolo, è un uomo affranto che grazie all'associazione "Hikikomori Italia" fondata dal giovane psicologo Marco Crepaldi, si è unito ad altri genitori di ragazzi autoreclusi e ha ritrovato la forza di lottare. "Spero sempre che la sua porta si apra. E ogni tanto accade. Quindici giorni fa ha accettato di venire con me a trovare la nonna. In auto si guardava intorno, parlava... Allora è possibile, mi dico, che torni il mio ragazzo allegro e pieno di vita, che giocava a calcetto e usciva con gli amici. Come tanti altri genitori, mi chiedo ogni giorno perché Paolo ha scelto di confinarsi in camera sua. L'ho lasciato troppo solo? Non sono stato presente? È colpa dei videogiochi? La scuola era troppo difficile? Poi la smetto di tormentarmi e cerco di portarlo per mano a uscire dalla prigione".
Marco Crepaldi conferma: "Gli hikikomori sono i ragazzi della mia generazione, ho fatto la tesi di laurea su di loro dopo averli scoperti leggendo un manga. Ma è bastato aprire un blog per capire che il fenomeno stava esplodendo anche in Italia. Attenzione: non è la Rete che porta all'autoreclusione, gli isolati sono sempre esistiti. Semplicemente i contatti virtuali danno l'illusione agli hikikomori di essere meno soli. Ed è per questo che l'isolamento dura di più. Come curarli? La scuola può fare moltissimo, così il sostegno psicologico e l'auto-aiuto tra genitori. Oggi il sito "Hikikomori Italia" ha ormai centinaia di contatti, così la pagina Facebook. E sono sempre di più i ragazzi auto-reclusi che si iscrivono".
Paolo richiude la porta della sua stanza. "Uscire di qui? Ci vorrebbe lo stimolo. Magari un lavoro. Ehi se qualcuno mi fa lavorare io smetto di fare l'hikikomori...". Ride. Ha di nuovo sedici anni. E vuole far volare i droni.

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