Il dono di Primo Levi

09.04.2017 18:30

Alla vigilia del trentesimo anniversario della morte, avvenuta a Torino l'11 aprile 1987, Ernesto Ferrero (La Stampa, 9 aprile 2017) ci offre un ritratto di Primo Levi che ne evidenzia le straordinarie doti intellettuali, letterarie e umane.

Mai così presente, mai così necessario. Mai così sorprendente. Nei trent’anni che ci separano dal suo congedo, abbiamo scoperto un Primo Levi molto più ricco e complesso di quello che per pigrizia avevamo semplificato sotto l’etichetta del testimone: una galassia in espansione. A scuola continua a essere uno degli autori più letti. La sua fama cresce esponenzialmente in tutto il mondo. Lo scorso anno negli Stati Uniti sono state pubblicate presso Norton Liveright le sue Opere complete in tre volumi, onore non concesso nemmeno a Dante, Machiavelli o Montale. Ora la nuova edizione delle Opere, per le cure amorevoli di Marco Belpoliti (Einaudi), consente di ripercorrere nel dettaglio le fasi accidentate e spesso tortuose di un laboratorio creativo. Ma cosa sappiamo realmente di un autore che a prima vista sembra chiaro, trasparente, non problematico, e invece si rivela complesso, multiplo, quasi cifrato, addirittura un rebus?

Il chimico cui all’inizio quasi si rimproverava di scrivere, come se la chimica fosse una disabilità lieve ma evidente, e non invece un prezioso supplemento di metafore e di strumenti conoscitivi, si è rivelato via via uno scrittore imprevedibile, ilare e curioso come un bracco sulle tracce della preda (immagine sua), mosso, fantasioso, arguto. Un poliedro di tante facce: memorialista, narratore, poeta, saggista, traduttore, antropologo, linguista, etologo, naturalista, persino artista che disegna con il computer. Un ibrido orgoglioso di esserlo (la vita nasce dall’impurità, diceva), che sogna di produrre altri ibridi, che vagheggia (e racconta) incroci portentosi tra mondo animale, vegetale, minerale, che inventa linguaggi per comunicare con gli animali. Un tecnico che maneggia con eguale piacere la materia più refrattaria e le parole, studiate e collezionate con passione di lessicografo e ghiottoneria di vero intenditore. Uno sperimentatore che vorrebbe porsi in diretta competizione con quell’altro demiurgo, Dio, che ha lasciato incompiuta la sua creazione. Ogni sua pagina è sottesa da sterminate conoscenze enciclopediche che vanno dalla biologia alla cosmologia, dalla linguistica alla zoologia e all’etologia, mai esibite, in una perfetta saldatura tra scienza e grande letteratura che condivide con il suo amico Italo Calvino, il primo a capire sin dal 1947 quanto magistero di scrittura ci fosse in Se questo è un uomo.

Al contrario di quello che fanno tanti autori, esibizionisti senza pudore, sembra occultare quello che fa: minimizza, depista, quasi si scusa per la profondità del suo sapere, per la già classica eleganza della scrittura. Un campione molto torinese di understatement, modestia, basso profilo. Sappiamo che scriveva poesie e racconti ancor prima di partire per Auschwitz, eppure per anni accredita la leggenda che alla scrittura lo ha spinto solo il dovere morale della testimonianza. Forse questa prudenza è il residuo di un antico senso di colpa: il brillante neolaureato non voleva confessare a sé stesso che avrebbe voluto campare del suo lavoro di scrittore. Un sogno proibito, specie in quegli anni. Si può ammirare la sua inventiva anche in tanti godibilissimi racconti fantabiologici, favole morali in cui sviluppa i temi che gli erano cari, come quelli delle crepe, delle smagliature etiche da cui nascono sia l’orrore del Lager sia gli usi distorti che facciamo di certe tecnologie avanzate. Affascinato dagli ossimori, sapeva che l’errore e la contraddizione fanno parte integrante della ricerca e in un certo senso la promuovono, quindi vanno esplorati creativamente. Aveva metabolizzato Dante come pochi altri, aveva un’intensa consuetudine con i classici greci, Rabelais, Baudelaire, Eliot, Rilke. Si divertiva sottotraccia a inventare giochi di parole e raffinati pastiches parodistici intessuti di citazioni sapienti, come ha ben documentato Alberto Cavaglion. Lo si può persino definire un umorista, come aveva visto acutamente Massimo Mila nel suo necrologio.

Aveva un bisogno fisiologico di raccontare, ma sapeva anche essere – cosa assai più rara – uno straordinario ascoltatore, come aveva intuito Philip Roth durante la visita torinese dell’ottobre 1986. Aveva sperimentato l’abietta ferocia degli uomini, eppure dichiarava di amarli, continuava a esserne incuriosito, quasi divertito. Non apparteneva alla congrega degli apocalittici e dei catastrofisti, convinto che la tecnica avrebbe saputo rimediare alle sue stesse malefatte, anche se da ultimo lo turbavano certe letture scientifiche in cui l’universo, «groviglio di mostri», gli appariva «cieco, violento e strano», preda di un caos autodistruttivo. La grande lezione che ci lascia, in questo crepuscolo d’Occidente avvilito da un odio tribale e da scomposte vociferazioni, è una misura di cultura vera, di empatia, di capacità d’osservazione, di disposizione al confronto, alla verifica pacata. Sempre sorridente, sempre sottovoce. Primo Levi è un dono che dobbiamo ancora imparare a meritarci.

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