Italiano per principianti

28.02.2017 16:53

Sull'inserto "Robinson" di Repubblica del 26 febbraio 2017 una serie di interessanti interventi sulla conoscenza e l'uso corretto della lingua italiana, sollecitati anche dal dibattito apertosi nei giorni scorsi con al pubblicazione della lettera dei 600 docenti universitari. Proponiamo, tra i diversi contributi, quello di Francesco Sabatini, presidente onorario dell'Accademia della Crusca.

Una nuova denuncia sull'inefficienza della nostra scuola nel dotare i giovani della capacità di usare mediamente bene la lingua italiana ha scosso l'Italia. Si è aggiunta la fausta notizia che metà dei 3.100 candidati a una cattedra nella scuola primaria (nel Veneto) è stata bocciata soprattutto per errori di ortografia. Alcuni di questi candidati già insegnano... Ma tutto ciò non è una novità. Non si contano, nell'ultimo mezzo secolo, denunce, appelli, manifesti, perizie, sottoscrizioni, lettere aperte ai ministri da parte di soggetti altamente qualificati, quali, soprattutto, la Società di Linguistica Italiana, con i derivati Gruppi di Intervento e Studio nel campo dell'Educazione Linguistica, l'Accademia della Crusca, l'Associazione per la Storia della Lingua Italiana.
Se a nulla, o quasi a nulla, è servito tutto ciò, bisogna ammettere che molte cose davvero non funzionano. Proviamo a ragionarci sopra, e preliminarmente distinguiamo tra lo sfondo storico dei problemi e le responsabilità di soggetti più vicini nel tempo, ai quali possiamo ancora chiedere i danni, almeno per incuria colposa.
L'Italia ha un antico conto aperto con la lingua. Al momento dell'unificazione politica avevamo il 78,5 per cento di analfabeti. Alla stessa data gli italofoni non raggiungevano il 10 per cento. Al momento dell'arrivo della televisione (1954) avevamo ancora più del 60 per cento di dialettofoni e fu proprio quel mezzo (non la scuola) ad avvicinare masse di italiani all'italiano. Ora, per schiodarci il prima possibile da queste cifre ci sarebbe voluta subito un'azione profonda e pedagogicamente ben mirata della scuola, ciò che non fu: non solo non furono mai attribuite alla scuola adeguate risorse materiali, ma non c'erano nelle nostre università e nelle altre istituzioni di formazione le risorse culturali per creare schiere di docenti adatti ad affrontare questa situazione, se si fa eccezione per le isole felici create da Maria Montessori nell'istruzione primaria. Il clima culturale generale, dominato dall'idealismo crociano e gentiliano, ha tenuto lontano dalle centrali della politica culturale e dell'azione educativa le scienze pedagogiche e le scienze linguistiche di indirizzo positivo, ben oltre la metà del secolo scorso. In concreto, le scienze del linguaggio per lungo tempo non sono minimamente entrate nel curricolo di formazione dei docenti di "italiano" destinati ai vari livelli del percorso scolastico: la linguistica italiana, non concepita come pura storia della lingua italiana – anche questa considerata a lungo disciplina "facoltativa" e spesso pura fiancheggiatrice della storia della letteratura italiana – ha fatto la sua timida apparizione nei corsi di laurea solo verso la fine del secolo scorso. Le date di fondazione delle citate associazioni disciplinari di netto carattere scientifico parlano chiaro. (Qualcuno dimentica che esse sono nate e cresciute in gran parte per la spinta di Tullio De Mauro?).
Questo discorso sul passato ci ha già portato ai tempi delle responsabilità più specifiche di chi ha operato nell'ultimo cinquantennio. Dal 1960 in poi sono avvenuti incredibili cambiamenti dentro e intorno alla scuola. Sono affluite, non solo per l'innalzamento (irrinunciabile) dell'obbligo scolastico, ma anche spontaneamente, verso gli studi superiori masse di adolescenti di ogni ceto sociale, provenienti anche da ambienti non propriamente italofoni; c'è stata una crescente penetrazione, anche nella scuola, di mezzi (audiovisivi e poi digitali) alternativi a quelli della comunicazione scritta. Per non parlare delle profonde trasformazioni del vissuto extrascolastico di tutta la popolazione studentesca dall'infanzia al raggiungimento della maggiore età. Comprendendo, in questo "mondo" esterno, anche le tante diverse modalità stilistiche del parlato e dello scritto reali che comunque influenzano il discente (pubblicità, prosa giornalistica, narrativa modernissima, fumetto, chat, ecc.) e il naturale moto evolutivo della lingua, anche per contatto con le altre lingue.
A questo mutamento radicale del volto reale della scuola nel suo complesso e del contesto che la circonda non ha fatto riscontro un adeguamento, sotto tutti gli aspetti, dell'offerta formativa. L'istituzione della laurea per maestri della scuola primaria è maturata lentamente nel decennio di fine Novecento (ma i "prodotti" sono entrati nelle scuole molto dopo). Ma tutta la formazione dei docenti ha continuato a svolgersi secondo gli schemi precedenti. C'è stato, anche, lo smembramento del curricolo universitario nel famoso 3+2 (laurea triennale e laurea specialistica) che ha prodotto, notoriamente, un abbassamento del primo livello della preparazione. Non è stata introdotta stabilmente, dopo vari tentativi, una vera Scuola di specializzazione per gli aspiranti insegnanti. E, per tirare le somme, non c'è stato un decisivo allargamento, nei piani universitari, della presenza delle discipline linguistiche indispensabili per chi andrà a "insegnare italiano", a bilanciare la presenza sempre predominante della più che tradizionale prospettiva storico-letteraria. Tant'è vero che, in tutte le forme di selezione (anche le ultimissime) dei candidati docenti, non sono previste verifiche del loro sapere linguistico, sia pure di grammatica tradizionale. Eppure, nelle commissioni di riforma dei "programmi" scolastici (istituite a più riprese da qualche ministro o sottosegretario a partire dalla riforma della Scuola media del 1977) si erano finalmente aperti accesi dibattiti dovuti alle spinte innovative provenienti dai settori della ricerca: chi scrive ne è stato più volte attore. Ma le proposte più feconde venivano poi, negli estenuanti dibattiti, smussate, considerate alternative, trasformate in sperimentazioni. Né il fronte editoriale mostrava, poi, coraggio nell'accogliere e diffondere qualcosa di veramente nuovo.
In questo palese, sostanziale disinteresse dei responsabili politici dell'istruzione per un serio rinnovamento delle basi culturali dei docenti di italiano (vecchi e nuovi), la scuola ha cercato di "fare da sé", tra mille difficoltà. Rincorrendo aggiornamenti, per lungo tempo volontaristici, poi in un quadro di generici obblighi e vaghi riconoscimenti, ma spesso compiendo scelte a dir poco improduttive, come quelle che l'hanno esposta a ventate di strutturalismo mal digerito, di sterile narratologia, sofisticata semiotica ecc.; ventate a cui si accompagnavano periodici rifiuti della basilare grammatica.
La grammatica: su di essa bisognerebbe (e bisognerà) svolgere un discorso a parte, per ristabilirne la centralità nel percorso di istruzione, ma a patto di precisarne, a lume di scienza linguistica moderna, le ragioni, la distribuzione temporale e la fisionomia. Condotto senza la revisione di questi parametri, del perché, quando e come (cioè secondo quale impianto teorico), lo "studio della grammatica" tornerà a fornire motivo di scontro tra i sostenitori della sua indispensabilità e i liquidatori di esso, in nome di una sostituibilità con la "pratica dei testi". A dimostrazione della necessità di rinnovare l'intima essenza di questo studio basterebbe fare un'analisi di un caso specifico: come la punteggiatura veniva trattata nei manuali tradizionali e come essa viene illustrata nella gran messe, ormai, di studi scientifici.
Alcuni chiedono, comunque, che qualcosa si faccia al più presto. Mi permetto di dare due rapide indicazioni. La prima: rendere davvero possibile (con permessi di studio) un consistente aggiornamento di tutto il corpo docente già sul campo, perché finalmente si familiarizzi con le nozioni fondamentali della linguistica moderna, entro la quale si rigenera anche la "grammatica", indispensabile per educare agli usi della lingua, parlata e scritta. Una presenza da limitare negli anni dell'istruzione primaria (fase di abilitazione del cervello alla lingua visiva e manualmente prodotta), ma da rendere consistente, intrecciandola con le pratiche testuali, in tutte le fasce successive, fino alla conclusione dell'istruzione scolastica. La seconda: rivedere l'impianto delle "Indicazioni" ministeriali, perché diventino più significative, con prescrizioni non eludibili, anche se da affidare alla declinazione del docente e dei consigli di istituto (più vicini alle realtà territoriali).
I tempi corrono sempre più. I ragazzi interpretano a modo loro il presente. Le facoltà universitarie che formano i docenti di italiano non hanno sentito il dovere di adeguare il repertorio delle scienze necessarie per la loro formazione. La dirigenza politica dell'istruzione non sembra staccarsi dal calcolo di privilegiare i provvedimenti di cui si vede il frutto entro la legislatura. Alle incapacità linguistiche che si perpetuano e si aggravano la scuola di per sé non può porvi rimedio: per questo non basta "controllare" (come forse qualcuno vorrebbe) ciò che essa fa o non fa.

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