La potenza della vita

22.01.2017 19:33

"C’è qualcosa di divino in questo impegno tutto umano dell’uomo per l’uomo, direbbero alcuni, o forse c’è qualcosa di pienamente umano nell’uomo che crede alla vita dell’altro uomo, così come sono inumane l’indifferenza, l’accidia, il pressappochismo quotidiani" (Alessandro D'Avenia, La Stampa, 21 gennaio 2017)

«Quando ieri ci ha preso la nebbia e qualche sasso rotolò dalla collina ai nostri piedi, non pensammo alle cose divine né a un incontro incredibile ma soltanto alla notte e alle lepri fuggiasche. Chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata». Così Cesare Pavese scriveva nell’ultimo dei suoi «Dialoghi con Leucò», intitolato «Gli dei», lamentando il fatto che non siamo più capaci di incontrare il mistero e la verità su noi stessi nel quotidiano, se non al momento della caduta.
Quando il terremoto si unisce alla bufera di neve e spazza via un albergo, sradicandolo dalle sue fondamenta e incastonando nel ghiaccio 35 vite, non c’è margine per «normalizzare» le nostre paure con la fuga o con la caccia al colpevole: è il momento in cui viene fuori cosa crediamo e chi siamo.
Siamo persone che credono, oltre ogni razionale evidenza, al miracolo della vita e alla speranza che la vita debba, a tutti i costi, essere data e preservata. Non mi spiego altrimenti uomini che, sugli sci, raggiungono nel cuore della notte un cimitero di neve e cominciano a scavare, come possono, a -7°, in attesa di soccorsi più efficaci e con il rischio che nuove valanghe seguano all’immensa colata di ghiaccio e detriti.
C’è una «irrazionale consapevolezza», se non fosse un paradosso, in quei muscoli che lavorano sotto zero con le mani e poco più, per dissotterrare un corpo o magari un superstite, la consapevolezza che ogni vita vale tutti i nostri sforzi e che, per una vita intera, noi non ci prepariamo ad altro che a questi incontri in cui sappiamo chi siamo, cosa crediamo e cosa dobbiamo fare: dare la vita.
Noi, trasformati in pubblico inerme del dramma, in silenzio tifiamo per quegli uomini che lavorano e per quelli intrappolati. Li amiamo, e magari nel quotidiano ci starebbero antipatici. Vorremmo poter fare qualcosa, essere all’altezza, ma quello che ci resta forse è solo lo spazio della speranza, che in alcuni si traduce in preghiera, in altri in attesa fiduciosa, in tutti la voglia di fare un po’ meglio il nostro lavoro, accesi dall’evidenza che ogni vita vale tutto lo sforzo di macchine, muscoli e denari. C’è qualcosa di divino in questo impegno tutto umano dell’uomo per l’uomo, direbbero alcuni, o forse c’è qualcosa di pienamente umano nell’uomo che crede alla vita dell’altro uomo, così come sono inumane l’indifferenza, l’accidia, il pressappochismo quotidiani.
Finalmente le voci di alcune di queste vite risuonano nelle sacche che cemento, alberi, detriti hanno fortuitamente costituito per frenare la cieca morsa di ghiaccio compatto. Risuonano voci di persone dalle caverne della morte, perché persona vuol dire proprio ciò che si fa udire (-sona) attraverso (per-) un’esile maschera di carne, che resiste e chiede aiuto, fino allo stremo, guidata dalla speranza che oltre il ghiaccio ci siano altre «persone»: perché questo spera un uomo da un altro, che la sua vita valga ogni sforzo, soprattutto quando è debole, in bilico, fragile. Bello sarebbe che questo impegno per l’uomo e per la sua vita, dopo l’ora arrischiata, perdurasse nella vita di tutti i giorni. Allora forse il miracolo si darebbe nel quotidiano del nostro lavoro, qualunque esso sia, fatto bene e vissuto come servizio: viaggiare nella notte e scavare per noi sono il servire le vite che ci sono affidate giorno per giorno (i cittadini a un politico, gli alunni ad un insegnante, i clienti a un barista...), il nostro respingere il ghiaccio dell’indifferenza, della solitudine, della stanchezza, dell’abbandono, della paura con uno sguardo che accorda attenzione, con una mano che ne stringe un’altra, con un semplice «come stai?» pronunciato a voce. Per questo mi piace ricordare anche i coniugi Moriconi che, ad Amatrice, in tempi non sospetti avevano costruito il loro agriturismo rispettando le regole antisismiche, salvando così tutti quelli che erano dentro al momento del terremoto e offrendo, dai giorni successivi fino ad oggi, quei locali a chi non ha più nulla. Solo lo straordinario ci risveglia all’ordinario, ma poi purtroppo quando tutto passa dimentichiamo chi siamo e in cosa crediamo. O magari no.

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