L'orizzonte basso della nostra società

19.02.2016 16:35

Che società è una società (quella attuale, n.d.r.) che non è più in grado di elaborare ragionamenti complessi, che deride e distrugge tutto ciò che ha una lontana parentela con quelli che, fino ad adesso, sono stati i fondamenti della vita umana? Queste le domande che si pone Susanna Tamaro (Corriere della Sera, 17 febbraio 2016). La risposta - dice la scrittrice - è abbastanza facile. E’ una società che si tribalizza ... Una società in cui i comportamenti atavici hanno il sopravvento su qualche migliaio di anni di cultura e di civiltà ... Una società dall’orizzonte sempre più basso ... con una realtà in cui la vita non è particolarmente piacevole.

Sono rimasta molto colpita dalla lettera dello scrittore algerino Kamel Daoud in cui spiega le ragioni del suo ritiro dal mondo giornalistico. «Viviamo nell’epoca dell’ingiunzione. O stai da una parte o dall’altra. Ogni volta che scrivo qualcosa, scateno reazioni eccessive, ricevo tonnellate di insulti e minacce e, per fortuna, anche manifestazioni di sostegno. Ma non mi trovo a mio agio, perché non sono un provocatore. Sono solo un uomo libero che vuole esprimere la sua opinione. Questo non è più possibile».
Una dichiarazione così netta in un mondo che avesse ancora caro l’uso del pensiero, dovrebbe suscitare un grande allarme, e forse anche qualcosa più di un allarme. Un pensatore stimato, una persona ragionevole, intellettualmente onesta, che ha semplicemente osato fare un discorso critico e appassionato sul mondo a cui appartiene — e che sicuramente conosce meglio di noi — è stato pubblicamente dileggiato al punto tale da costringerlo a scegliere il silenzio.
Il caso in questione è legato a un’accusa di islamofobia da parte dalla crème degli intellettuali francesi legati a Le Monde, ma non ci vuole molto sforzo per capire che questo scenario si ripete con le stesse modalità sull’orbe terracqueo dominato ormai dalla dittatura della comunicazione digitale immediata.
Stai con me o contro di me? Questa è l’ampiezza di pensiero che viene concessa nei nostri iper-democratici tempi, ed è un’ampiezza che un solo sbocco: se non stai con me, non hai il diritto di esistere. Quello che una volta era l’eliminazione fisica dell’avversario — la gogna, la prova dell’ordalia — ora diventa il linciaggio virulento sui media che, con pochi battiti di tastiera, riescono a spargere il loro veleno anche nei luoghi più sperduti.
Prima di tacciare di viltà chi decide di sottrarsi a questo gioco al massacro, come ha fatto lo scrittore algerino, bisogna sapere che cosa si prova ad essere un bersaglio di questo tipo. Per circa dieci anni, a partire dal 1995, sono stata oggetto di una campagna di calunnie che ha minato fortemente la mia vita e la mia salute.
Non esistevano ancora, per mia fortuna, i social media, ma non c’era giorno che io non aprissi innocentemente la radio, sfogliassi un giornale, rispondessi una telefonata senza trovare il mio nome accostato a ogni tipo di infamia.
Ero una fascista, naturalmente, una reazionaria, una bigotta, una creatura berlusconiana, l’idiota e furba prestanome di un’operazione di marketing ideato da altri, e chi più ne ha più ne metta. Ricordo, ad esempio — tanto per evidenziare il livello del discorso — che secondo un settimanale cattolico l’esistenza di persone come me e l’incolpevole Rosanna Lambertucci erano tra le cause del degrado morale del paese. Con il senno di poi, se devo contare le persone che, nel mondo culturale e dei media, non hanno parlato male di me in quegli anni, penso che bastino le dita di una mano.
Chi sceglie la carriera politica, in linea di massima, ha una personalità che gli permette di affrontare cose che uno scrittore o un poeta non sarebbe mai in grado di sopportare. L’abitudine all’insulto, alla calunnia, alla derisione fanno parte, ahimè, del nostro orizzonte politico. In questo gioco al massacro, i nostri politici sembrano quei pupazzetti che non cadono mai: oscillano, si piegano ma poi si rialzano con la stessa espressione ridente che avevano prima di cadere. Ma un artista, uno scrittore a queste campagne può anche soccombere perché vive in un’altra dimensione, più privata, più complessa, più fragile, lontana dalle frenesie del potere e dell’apparenza.
Come Kamel Daoud, neppure io sono mai stata una provocatrice, eppure i miei libri e le interviste che ho rilasciato hanno fatto divampare incendi di devastante ferocia nei miei confronti. Le parole dette e scritte hanno un peso, si depositano nella mente e nel cuore delle persone e lì continuano a lavorare, moltiplicando il loro potenziale veleno. Così può capitare negli anni, come è successo a me, di essere insultati per strada, di ricevere minacce di morte, di vedere sconosciuti uscire da librerie o dallo scompartimento di un treno, manifestando verbalmente l’obbrobrio della mia vicinanza.
In nome di che cosa persone che amano leggere, studiare, ragionare con pacatezza dovrebbero continuare a sottoporsi a una simile linciaggio che viene riservato d’ufficio a chi non si accoda al coro delle «magnifiche sorti e progressive» del pensiero dominante? Pensiero che si regge su un’unica — fallacissima — idea: l’uomo è naturalmente buono e, lasciato finalmente libero dai vari gioghi religiosi o di consuetudine sociale, non potrà far altro che ricreare intorno a sé il mondo ideale e pieno di amore che da sempre cova nel suo cuore.
Avrei avuto molte cose da dire sulle questioni apparentemente fondamentali che agitano l’universo dei media in queste settimane, ma ho scelto di non farlo perché non ho nessuna intenzione di sottopormi a un nuovo linciaggio. Non sono una pasionaria come la Fallaci, la pacatezza è stata sempre la cifra del mio ragionamento, ma so ormai che per questa dimensione non c’è più alcuno spazio. Il non pensiero e il trionfo del sentimentalismo individualista dominano ormai ogni dibattito, pubblico e privato che sia.
La nostra è una società che sta diventando sempre più afasica. Il crollo verticale della padronanza della lingua, il drastico impoverimento lessicale delle nuove generazioni contribuiscono in maniera determinante a questa impossibilità di ragionare. Se non si conoscono le parole per esprimere ciò che si prova, si diventa rapidamente estranei a sé stessi e al proprio destino, si diventa «poveri» perché non si è in grado di comprendere e di esprimere ciò che si ha dentro e dunque, per trovare sicurezza, non si può far altro che rivolgersi al branco e conformarsi alle sue leggi.
Che società è, mi chiedo, una società che non è più in grado di elaborare ragionamenti complessi, che deride e distrugge tutto ciò che ha una lontana parentela con quelli che, fino ad adesso, sono stati i fondamenti della vita umana? La risposta è abbastanza facile. E’ una società che si tribalizza.
Ho il fondato sospetto che questo trionfo della libertà individuale, anziché condurci nell’agognato Parnaso dell’uomo senza più gioghi, rischi di riportarci direttamente al primate che sonnecchia in noi. Primate che strilla se vede un serpente e che, con il suo strillo, mette in allarme i suoi simili, facendo strillare tutto il branco che il serpente non lo vede. Primati teneramente dolci, ma capaci di provare anche la gioia e la ferocia dell’assassinio fine a sé stesso, come annota in splendide pagine di doloroso stupore Jane Goodall, nella sua autobiografia.
Una società in cui i comportamenti atavici hanno il sopravvento su qualche migliaio di anni di cultura e di civiltà è una società dall’orizzonte sempre più basso. E gli orizzonti bassi, di solito, generano realtà in cui la vita non è particolarmente piacevole.

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