Svetlana Aleksievic, un Nobel che premia il coraggio

13.10.2015 17:11

«Voglio restare un essere umano e non arrendermi all’enormità del male» così Svetlana Aleksievic, la grande scrittrice e giornalista bielorussa insignita giovedì scorso, 8 ottobre, del premio Nobel per la letteratura.

«Prima di imparare a scrivere bene bisogna trovare se stessi. Quel che definisce il grande scrittore non è soltanto la sua capacità di scrittura. Il grande scrittore è una totalità, un mondo, una maniera di pensare, di cui lo stile non è altro che il risultato».

(dall'articolo di Maria Nadotti, Corriere della Sera, 9 ottobre 2015)

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Sullo stesso argomento leggi la pagina (con l'articolo di Fulvio Panzeri) di "Agorà sette", Avvenire, 9 ottobre 2015

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La bielorussa Svetlana Aleksievic è una scrittrice amata in tutto il mondo e invisa al regime del suo Paese. «Oggi - mi ha scritto qualche tempo fa, subito dopo l'assassinio camuffato da suicidio del giornalista bielorusso Oleg Bebenin, fondatore del sito d'opposizione Charter97 - è particolarmente importante sentire che non si è soli».
La sua metodologia di scrittura è complessa, rigorosa, controcorrente. Come lei stessa dice: «Ho cercato un metodo letterario che mi permettesse di accostarmi quanto più possibile alla vita reale. La realtà mi ha sempre attirata come un magnete, torturandomi e ipnotizzandomi. Volevo catturarla sulla pagina e alla fine ho scelto un "genere" che combina la viva voce di uomini e donne, confessioni, testimonianze oculari e documenti. E così che percepisco e vedo il mondo: un coro di voci individuali e un collage di dettagli quotidiani. Solo in questo modo il mio potenziale mentale ed emotivo trova piena realizzazione. Non posso fare a meno di essere allo stesso tempo scrittrice, reporter, sociologa, psicologa, sacerdote».
Le opere di Aleksievic potrebbero essere definite una cronaca della nostra epoca, il tracciato evolutivo di varie generazioni sovietiche, dall'infatuazione, seguita dal disincanto, di fronte alla grande utopia al disorientamento del cittadino post-sovietico davanti al suo crollo e alla nuova realtà. La storia nel suo farsi viene «riferita» da donne e uomini comuni. Compito di chi scrive è restituirla con onestà e lucidità, senza sovrapporsi ai propri «informatori» e senza mai dimenticare il debito di fiducia che si è contratto nei loro confronti.
Nata nel 1948, Aleksievic si è laureata in Giornalismo presso l'Università di Minsk e, prima di scegliere definitivamente la strada del reportage di ampio respiro e della scrittura per il teatro, ha lavorato per varie testate giornalistiche. In Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Bulgaria i suoi libri sono stati adattati per il teatro e portati sulla scena, dai suoi drammi teatrali sono stati ricavati svariati film documentari.
Nonostante l'enorme popolarità, dopo il successo di The War's Unwomanly Face (La guerra non ha un volto di donna, edito nel 1983, in uscita per Bompiani), è stata accusata di «aver dipinto a tinte non sufficientemente eroiche la donna sovietica» e, fino all'avvento della perestrojka, ha vissuto anni durissimi di persecuzione. E nel 1989, tuttavia, con il reportage Ragazzi di zinco (sulla guerra tra Urss e Afghanistan vista attraverso gli occhi dei protagonisti), che Aleksievic deve affrontare il periodo più cupo della sua vita professionale. Accusata di disfattismo, è denunciata e portata in tribunale.
La salverà la mobilitazione degli intellettuali democratici russi e bielorussi e di varie organizzazioni internazionali per i diritti umani, che si schiereranno al suo fianco e bloccheranno l'azione legale intentata contro di lei.
Nel 1993 pubblica Incantati dalla morte, un requiem sulla fine dell'utopia e sullo smarrimento di chi, non sapendo ripensarsi fuori dalla cornice del socialismo reale, sceglie di sottrarsi all'ignoto attraverso il suicidio. Nel 1997 dà alle stampe Preghiera per Cernobyl, un amoroso, monumentale oratorio sul «dopo-disastro» in cui l'autrice smette di «scrutare» le sofferenze altrui per riconoscersi ella stessa testimone, «una in mezzo agli altri».
È da qui, dalla semplice constatazione che tra voce narrante e cosa narrata non c'è margine o possibile distanza, che hanno origine un esperimento di scrittura e un'invenzione narrativa che vanno dritti al cuore e alla coscienza di chi legge. Quel dichiararsi dell'autrice parte del «popolo di Cernobyl» produce una sorta di vortice emotivo: d'ora in avanti le molteplici voci da lei raccolte, le infinite piccole storie di vita, sofferenza, malattia e morte, pazientemente registrate in tre anni di ricerca, diventeranno la sua voce. Un abisso di dolore e di sgomento, la presa d'atto che a Cernobyl è successo l'impensabile. Quel giorno, insieme al quarto reattore della centrale, si è infranta per sempre la possibilità di affidarci alle percezioni corporee, di contare sui nostri sensi.
Il metodo di Aleksievic ha del vertiginoso. Ciò che la muove è la volontà di capire dall'interno e dal basso come si sia riorganizzata la vita di chi, in pochi secondi, si è visto proiettare in un universo che neanche la letteratura fantascientifica più terminale aveva saputo anticipare. Il suo strumento d'indagine è l'ascolto, la capacità di stare a lungo, indifesa e modesta, accanto a tante persone comuni, fino a guadagnarsene la fiducia e a ricostruire con loro quei dettagli che, assai meglio di qualsiasi teoria, sanno illuminare i processi della storia. «Noi cernobyliani - le dice un insegnante di applicazioni tecniche - siamo spesso silenziosi. Non gridiamo e non ci lamentiamo. Sopportiamo. Anche perché non ci sono ancorale parole. Il mondo si è diviso: ci siamo noi, quelli di Cernobyl, e ci siete voi, tutte le altre persone...».
Questo «popolo a parte», cui il male assoluto ha fornito una cittadinanza inedita, è ora alla ricerca di un senso. Non per farsi una ragione di ciò che è accaduto, ma per non affondare nel caos totalitario della paura. Paradossalmente, infatti, questa corale Preghiera per Cernobyl, che si interroga e interroga sul mistero del male, è un formidabile testo sull'amore. Perché, come dice l'autrice, «la mia scrittura è un atto di protesta interiore: voglio restare un essere umano e non arrendermi all'enormità del male. Il lavoro dell'intellettuale è avvicinarsi sempre più alla realtà. Se però non si riesce a mettere a fuoco il senso di questa ricerca, ne viene fuori solo il magazzino degli orrori. Dobbiamo chiederci come liberare i nostri testi da ogni incrostazione emotiva, pur senza perdere la nostra individualità; come trasformare in arte, in parola, ciò che nella vita reale può farci svenire. Descrivere lentamente la morte di un uomo non è estetizzarla, è dire che non è giusto morire così».
La sua ultima opera, il monumentale Tempo di seconda mano, alla cui scrittura Aleksievic ha dedicato tredici anni della sua vita e che le è valso il meritatissimo premio Nobel per la letteratura, è un'indagine sulle alterazioni prodotte dal crollo dell'impero sovietico nella vita materiale e nello spirito dei suoi non più «asserviti» cittadini, è portatore di verità brucianti e dolorose.
Con la consueta capacità di guardare il reale senza distogliere lo sguardo, Aleksievic racconta la disfatta del modello comunista, restituendo con implacabile fedeltà le voci dell'uomo e della donna della strada. La guerra in Cecenia narrata dai suoi intervistati è, per esempio, un mestiere come tanti. Ci si arruola per sbarcare il lunario.
«Prima di imparare a scrivere bene - mi diceva tempo fa l'autrice - bisogna trovare se stessi. Quel che definisce il grande scrittore non è soltanto la sua capacità di scrittura. Il grande scrittore è una totalità, un mondo, una maniera di pensare, di cui lo stile non è altro che il risultato. Per scrivere un libro non basta raccogliere i fatti e parlare anche con mille persone. Per sentire cose nuove, bisogna porre domande nuove. Per farlo bisogna crearsi una propria visione delle cose. Solo allora si può trarre un qualche senso dai fatti, perché a questo punto si ha un centro che lo attiva. Là fuori ci sono centinaia di romanzi che aspettano di essere scritti, ma per riuscire a scriverli bisogna che le voci di cui si compongono coincidano con qualcosa che è dentro di noi. Che i miei libri siano pubblicati in tanti Paesi dipende dal fatto che parlo non di eventi, ma di sentimenti. Il trentesimo è probabilmente il secolo della fine delle idee che contano più della vita umana. Quando scrivo i miei libri vedo l'essere umano su due piani: l'essere sociale, vale a dire l'individuo del suo tempo, ed è la sfera del giornalismo puro; e poi la persona nuda sulla nuda terra, e qui, nell'interrogarsi sulla natura umana, inizia la letteratura».