Siamo tutti figli del logos. Ecco perché la Grecia resterà sempre la miglior patria d’Europa

03.07.2015 16:40

La cultura nata all’ombra del Partenone fa parte del mito fondativo del Vecchio continente. E i singoli Stati non devono ignorarlo se non vogliono disfarsi tra nazionalismi e calcoli economici (Massimo Cacciari, la Repubblica, 1° luglio 2015)

Può l’Europa fare a meno della Grecia? Se la domanda fosse stata rivolta a uno qualsiasi dei protagonisti della cultura europea almeno dal Petrarca in poi, questi neppure ne avrebbe compreso il significato. La patria di Europa è l’Ellade, la “migliore patria”, avrebbe risposto, come verrà chiamata da Wilhelm von Humboldt, fondatore dell’Università di Berlino. Filologia e filosofia si accompagnano, magari confliggendo tra loro, nel dar ragione di questa spirituale figliolanza.
Non si tratta affatto di vaghe nostalgie per perdute bellezze, né di sedentaria erudizione per un presunto glorioso passato, coltivate da letterati in vacua polemica con il primato di Scienza e Tecnica. Oltre le differenze di tradizione, costumi, lingue e confessioni religiose che costituiscono l’arcipelago d’Europa, oltre l’appartenenza di ciascuno a una o all’altra delle sue “isole”, si comprende che il logos greco ne è portante radice, che non si intende il proprio parlare, che si sarà parlati soltanto, se non restiamo in colloquio con esso.
Quel logos ci raccoglie insieme e ha informato di sé la storia, il destino di Europa. Ciò vale per pensatori e movimenti culturali opposti, per Hegel come per Nietzsche. Vale per scienziati come Schroedinger, Heisenberg, Pauli. Vale anche per coloro che si sforzano di pensare ciò che nella civiltà europea resterebbe non-pensato o in-audito: anche costoro non possono costruire la propria visione che nel confronto con quella greca classica.
Per la cultura europea, dall’Umanesimo alle catastrofi del Novecento, la memoria della “migliore patria” è tutta attiva e immaginativa: non si dà formazione, non può essere pensata costruzione-educazione della persona umana nella integrità e complessità delle sue dimensioni senza l’interiorizzazione dei valori che in essa avrebbero trovato la più perfetta espressione.
Un grande filosofo, Edmund Husserl, li ha riassunti in una potente prospettiva: nulla accogliere come quieto presupposto, tutto interrogare, procedere per pure evidenze razionali, regolare la propria stessa vita secondo norme razionali, volere che il mondo si trasfiguri teleologicamente in un prodotto della vita di questo stesso sapere. Una follia? Forse - ma una follia che ha veramente finito col dominare il mondo. Eurocentrismo? Certamente - ma autore dell’occidentalizzazione dell’intero pianeta.
La Grecia non assume più per noi alcun rilievo culturale e simbolico? Possiamo ormai contemplarla come l’Iperione di Hölderlin dalle cime dell’istmo di Corinto: «lontani e morti sono coloro che ho amato, nessuna voce mi porta più notizie di loro»? Come è spiegabile un simile sradicamento?
L’anima bella “progressista” risponde con estrema facilità: quell’idea di formazione che aveva la Grecia al suo centro era manifestamente elitaria, anti-democratica; la sua fine coincide con l’affermazione dei movimenti di massa sulla scena politica europea. Io credo che la risposta sia ancora più semplice, ma estremamente più dolorosa. Tra l’ora attuale (noi, i “moderni”!) e la “patria migliore” c’è il suicidio d’Europa attraverso due guerre mondiali.
L’oblio dell’Ellade è il segno evidente della fine d’Europa come grande potenza. Si badi: grande potenza è anche lo Stato o la confederazione di Stati che intendano diventarlo. Essi dovranno, infatti, dotarsi tanto di armi politiche ed economiche quanto di una strategia volta alla formazione di classe dirigente e di una cultura egemonica. Sempre così è stato e sempre così avverrà.
Quando vent’anni fa scrivevo Geofilosofia dell’Europa e L’Arcipelago ancora speravo che questo arduo cammino si potesse intraprendere. E ci si risparmi la fatica di ripetere che non è affatto necessario che ciò si realizzi nel senso di una volontà di potenza sopraffattrice. L’Europa può ora pensare di dimenticare la Grecia, perché rinuncia a svolgere una grande politica, la quale può fondarsi soltanto sulla coscienza di costituire un’unità di distinti, aventi comune provenienza e comune destino.
Se questa coscienza vi fosse stata, avremmo avuto una politica mediterranea, piani strategici di sostegno economico per i Paesi dell’altra sponda, un ruolo attivo in tutte le crisi mediorientali. E avremmo avuto grandi interventi comunitari per la formazione, gli investimenti in ricerca, l’occupazione giovanile. Tutto si tiene. Una comunità di popoli capace di svolgere un ruolo politico globale non può non avere memoria viva di sé, memoria di ciò che essa è nella sua storia, e non di un morto passato.
Tutti miti - diranno gli incantati disincantati dell’economicismo imperante. So bene - l’Europa attuale è quella costruita sulla base delle necessità economico-finanziarie. Gli staterelli europei usciti dalla seconda Guerra non avrebbero potuto sopravvivere senza l’unità del denaro. Oggi la Grecia grida al mondo che una tale unità non produce di per sé alcuna comunità politica. Se pensiamo all’Europa come a un colossale Gruppo finanziario, allora è “giusto” che una delle sue società di minore peso (magari mal gestita, da un management inadeguato) possa tranquillamente essere lasciata fallire.
L’importante è solo che non contagi le altre. Ma se l’Europa vuole ancora esistere in quanto tale, e non disfarsi in egoismi, nazionalismi e populismi, deve sapere che la Grecia appartiene al suo mito fondativo, e che nessuna credenza è più superstiziosa di quella, apparentemente così ragionevole e “laica”, che ritiene il puro calcolemus senso, valore e fine di una comunità.

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