L'amore (imperfetto) di ogni giorno

13.02.2015 11:44

"L’amore mortale non è un inizio che si rinnova a ogni passo, e non si dissolve nel desiderio di una perfezione. Credo abbia piuttosto la consistenza dei giorni che passano". Nel giorno di San Valentino, la ri-scoperta di una dimensione meno fatua e meno vacua del sentimento che tiene unito il mondo e gli dà vita (Silvia Avallone, Corriere della Sera del 13 febbraio 2015)

Una delle immagini più spietate che conservo della mia adolescenza è questa: il Corso affollato il sabato pomeriggio di una quasi estate, si fatica a camminare; siamo tutti impegnati a risaltare in bellezza o in faccia tosta facendo avanti e indietro instancabilmente; quello che vogliamo è fare incetta di sguardi, affermare la nostra esistenza; non c’entra nulla con l’amore questa battaglia, eppure è il solo nome che diamo alla ricerca forsennata di una dichiarazione, addirittura di un appuntamento. Ma l’immagine a cui accennavo all’inizio non è centrale, non ci passeggia a fianco. Si staglia su una panchina in fondo, tra un bancomat e un’agenzia di viaggi. Sedute perché in piedi non riuscirebbero a starci, il corpo fiaccato dalla decrepitezza, tre vedove o zitelle. Non l’ho mai saputo, perché fossero sole. Era, per ironia della sorte, il periodo in cui studiavamo «L’umorismo» a scuola, e le tre anziane sembravano lì apposta per incarnare il saggio di Pirandello: agghindate con gioielli, fiori finti e spille, truccate così pesantemente che i pomelli rosa del fard potevi distinguerli anche da molto lontano. Se ne stavano spudoratamente in vetrina. Volevano la nostra stessa cosa.
Ricordo quanto ferocemente le abbiamo prese in giro. Piano, senza farci sentire: «Al cimitero lo troveranno, il fidanzato». Ma quella era l’epoca dell’amore crudele, che ritenevamo il solo plausibile; che a noi spettava di diritto e a loro no. Erano i nostri sedici anni contro i loro ottanta, lo strapotere del corpo in fioritura. E noi vincevamo. E loro, senza riuscire ad ammetterlo, finivano di appassire.
Questo è l’amore che dura una sola stagione.
Dopo si scompare, semplicemente, come i gatti che vanno a morire. Dopo le donne diventano madri e non amano più. Si prendono cura dei figli, sopportano i mariti al ritorno dal lavoro, escono di casa «infagottate». Meste, in tuta e ciabatte, a sorvegliare i desideri degli altri, a soffocare i propri, perché il loro momento di gloria è passato. Se non lo accettano, allora fanno ridere e pena.
Anche gli uomini, quelli in compagnia di giovani badanti straniere, quelli che pagavano l’amore illudendosi di non farlo, ci facevano lo stesso effetto «umoristico». Perché l’amore era lotta e conquista: spettava al più forte, a chi aveva la natura dalla sua parte. Così, pur senza dirmelo, devo aver ragionato da adolescente, in quella stagione dell’amore immaginario, raccontato fittamente alle amiche.
Ricordo com’era abbacinante quell’immaginazione, priva di opacità e di difetti. Quanta epica nei resoconti concitati di finestrini infranti per gelosia, di scenate cinematografiche in mezzo alla strada, di possibili fughe e «fuitine». Non ci ho mai sentito descrivere, in quelle circostanze, persone reali, ma sempre fantasmi da noi creati, quasi personaggi letterari.
Tutti i romanzi d’amore che leggevo parlavano in fondo di questo: dello struggersi per un’idea. E più l’altro era assente, difficile da conquistare e da comprendere, più il desiderio ingigantiva e idealizzava.
Imbattibile è "L’educazione sentimentale" di Flaubert: Frédéric Moreau butta via la sua giovinezza per una causa persa in partenza. Non avrà mai Madame Arnoux, sposata e inaccessibile. Eppure è lei che vuole, è il desiderio impossibile a cui non intende rinunciare. E finché non l’avrà, potrà tenersi al riparo. E il tempo passerà inesorabile: imbiancherà i capelli, si divorerà l’amore rimasto pulito: perché mai conosciuto, mai vissuto.
Leggere, scrivere è puro desiderio, puro erotismo, e volontà di sapere come andrà a finire. L’amore, questo di cui sto parlando, risponde alle stesse leggi: divorare pagine, dettagli, arrivare a svelare un segreto esplosivo, bruciare in questa attesa, navigare dentro lo straordinario. E più sei bugiardo, più sai raccontare. Più giochi con la suspense, il pathos, il dramma, più l’amore feroce della conquista ti prende. È una ricerca affamata, uno sfiorare senza mai afferrare, un mistero che ti tiene incollato fino all’ultima pagina, fino all’altare. Poi il libro è finito.
È difficilissimo raccontare un amore coniugale che non sia fatto almeno di litigi furibondi e piatti scaraventati contro i muri. Raccontare è attività clandestina, fedifraga. Immaginare, lo stesso: l’amore scritto, filmato, cantato, invocato, che non rincasa, non si sporca, non invecchia. Questa è l’ebbrezza del volere e non avere.
Ciascuno desidera vivere la propria vita come un romanzo, in un perenne stato nascente, d’innamoramento che non si consuma. Si può fare, a patto di mentire molto bene, di sapertela magistralmente raccontare: questa illusione di essere in due anziché tu con la tua fantasia. E ti puoi anche divertire, anzi devi: godere di questa magnifica bugia. Tenendo conto di una differenza: che l’amore raccontato è immortale, ma la vita è mortale eccome.
Non ha niente di romanzesco: è muta. Ha a che fare con la «smarginatura» che Lila avverte al fondo di tutte le sue esperienze nell’"Amica geniale" di Elena Ferrante. La vita non è trama, non è intreccio. È caos, spesso, incomprensibile. E l’amore, non nella sua menzogna, ma nella sua verità, appartiene a questa vita nuda senza parole. Non è mancanza che genera sogni, ma il «privilegio della presenza» di cui parla Wislawa Szymborska in una poesia difficile, straziante, perché dice della solitudine immane dopo la morte del suo compagno, vissuta di fronte a una primavera che ritorna.
L’amore mortale non è un inizio che si rinnova a ogni passo, e non si dissolve nel desiderio di una perfezione. Credo abbia piuttosto la consistenza dei giorni che passano, e non tema il sentimento di una fine, laggiù da qualche parte. L’ho trovato in quel «gatto in un appartamento vuoto» — per citare ancora la mia poetessa preferita — che aspetta un uomo amato ogni mese, ogni anno, che non può tornare. È questa assenza cruda incisa dentro le cose, questo limite inaccettabile del tempo, che fa da contraltare all’atto di presenza quotidiano che per me è la forma reale dell’amore.
Una presenza appassionata, difettosa, faticosa, che non abbiamo mai finito di imparare. Di fronte alla quale non valgono pose né strategie. Con cui abbiamo diviso le cose che non fanno clamore, quelle che non si possono dire. Non perché ne avessimo bisogno. Ma perché a un certo punto, dopo molte titubanze, ne abbiamo trovato il coraggio.
L’amore, per come lo vedo adesso, è il contrario di tutte le menzogne che ci diciamo per raccontarci la vita che non stiamo vivendo. Non è crudele, non dura una sola stagione, non si esibisce e non si trucca. L’amore è esattamente, nel tuo volto preciso, nei tuoi modi imperfetti di fare, il tempo che forse non ci darà ragione, ma che abbiamo deciso di vivere insieme.

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