Se i "partiti deboli" minano il rilancio della produttività

30.10.2014 08:33

Non è emarginando i sindacati e facilitando i licenziamenti che si può rilanciare la produttività. Lo sostiene Carlo Trigilia, professore ordinario all'Università di Firenze, già ministro della coesione sociale nel governo Letta, in un articolo sul Corriere della Sera del 26 ottobre 2014. Quasi un breve saggio su un tema di scottante attualità come la polemica governo - sindacati che si sta sviluppando in questi giorni.

Caro direttore, l'indicatore forse più preoccupante della crisi che sta attraversando l'Italia è la lunga stagnazione della produttività del lavoro. Perdiamo contatto con i Paesi più dinamici che investono nel capitale umano e nel progresso tecnico. Tra le cause prossime vi è certo la carenza di investimenti, ma vi è anche la ridotta capacità di valorizzare le conoscenze e l'impegno dei lavoratori, non considerandoli solo come un fattore di costo. Come fare allora per costruire una fiducia vera sul futuro, per rilanciare la volontà di intraprendere, di innovare e di cooperare?
Anzitutto, sembra mancare una consapevolezza adeguata delle radici profonde della crisi italiana, che motiverebbe uno sforzo integrato, congiunto e prolungato, una strategia di medio ­ lungo periodo; qualcosa di simile a quel che accade con i problemi di ricostruzione dopo una guerra. Le principali forze politiche, pur condividendo l'obiettivo di una profonda ricostruzione del tessuto istituzionale, non sembrano però consapevoli della necessità di mettere la sordina agli interessi partigiani e alla competizione elettorale a breve; e non sembrano in grado di impegnarsi in uno sforzo congiunto e palese di ricostruzione in cui gli interessi politici contingenti e di parte facciano un passo indietro.
A ben vedere, in altri Stati dell'Europa continentale, questo è invece accaduto. Nei Paesi scandinavi e in Germania si è sperimentata, in forme diverse (a volte con «grandi coalizioni»), una «via condivisa» di riorganizzazione basata su tre pilastri: essa ha coinvolto le organizzazioni sindacali, senza delegittimarle come capro espiatorio della crisi, ma spingendole a innovare e a contribuire alla crescita della produttività; ha puntato a una riforma del welfare per ridurne i costi, e del mercato del lavoro per renderlo più flessibile, sperimentando al contempo nuove forme di protezione sociale per chi perde il lavoro; infine, investendo in formazione, ha cercato di legare la mobilità del lavoro al rafforzamento dei nuovi settori ad alta tecnologia e con produzioni di qualità, più protetti dalla concorrenza di costo dei Paesi emergenti. In questo processo il coinvolgimento pieno dei lavoratori nella contrattazione decentrata a livello di un ruolo cruciale, come ben mostra l'esempio tedesco.
In Italia è soprattutto l'instabilità del sistema partitico che ostacola una soluzione di questo tipo. Entrambe le forze principali sono, in forme diverse, partiti deboli con leader forti che condizionano le scelte ai loro interessi. Dopo la costituzione del governo Letta, che avrebbe potuto e voluto orientarsi nella direzione della «via condivisa», è stato prima il leader di Forza Italia, condizionato in particolare dalle sue vicende giudiziarie, a rendere difficile la collaborazione al governo con il Pd, con una sorta di guerriglia giornaliera. Successivamente, con il rapido e forte successo della nuova leadership del Pd, le difficoltà sono venute proprio da questo versante. Occorreva incassare il risultato. Ma il problema si ripropone ora con l'attuale governo. Persiste infatti l'esigenza di consolidamento elettorale a breve del presidente del Consiglio, che entra in conflitto con i tempi lunghi e con i rischi elevati di realizzazione efficace di una «via condivisa».
Ciò sembra riflettersi su due terreni di azione dell'attuale governo. Anzitutto, nella scelta di provvedimenti per rilanciare l'economia che devono tenere sempre d'occhio anche la eventuale resa elettorale immediata, qualora le difficoltà di governare la crisi aumentassero. Da qui la preferenza per interventi distributivi a sostegno della domanda (bonus, sgravi, eccetera) che possono essere utili per agevolare la ripresa ma rischiano di aggravare i conti pubblici e soprattutto non toccano il nodo cruciale della produttività. Da questo punto di vista, sembra invece emergere una sorta di «via thatcheriana» all'aggiustamento, basata sull'idea che bisogna ridurre il peso e il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza, soprattutto dei sindacati; e che occorra inoltre riformare il mercato del lavoro specie con ulteriori facilitazioni alla licenziabilità (Jobs act). Anche in questo caso è da tenere presente la spendibilità sul piano elettorale di questa linea: verso il mondo delle piccole imprese, del lavoro autonomo e di un’ampia parte dell’elettorato che vede con favore l’attribuzione ai sindacati delle principali responsabilità per la crisi.
Ma può essere questa una strada efficace per il rilancio della produttività e la ripresa dello sviluppo? È lecito dubitarne, e non solo perché essa non sembra congruente con il nostro contesto culturale e istituzionale e con la distribuzione delle forze in campo (del resto nell’Europa continentale nessun Paese l’ha sposata e gli stessi risultati della Gran Bretagna – ormai priva di manifattura – non sono certo incoraggianti). Il dubbio sull’efficacia di quel percorso è lecito perché il rilancio della produttività non dipende solo dal maggiore spazio per il mercato, ma da una fiducia vera, che implica collaborazione e condivisione in una complessa e lunga ricostruzione istituzionale, e richiede la valorizzazione del lavoro non solo come fattore di costo, di cui valersi e disfarsi a seconda del ciclo, ma come chiave stabile per il rilancio della produttività. 

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