Così la Sicilia resiste al taglio dei maxistipendi

18.07.2014 14:25

Non c'è ironia, nelle parole di Gianantonio Stella (Corriere della Sera, 18 luglio 2014), ma autentica indignazione per l'iniquità di comportamenti cui si accompagna la sfrontatezza di chi si avventura nella ricerca di improbabili "nobili ragioni". Uno schiaffo alla miseria in una delle regioni di più forte criticità economica e sociale.

Su quale pianeta vivono, i maragià della politica e i burocrati dell’Ars? Te lo chiedi confrontando le condizioni disperate di un terzo delle famiglie siciliane e l’impudenza con cui quei signorotti, rivendicando l’autonomia, rifiutano i tagli renziani, udite udite, per non «cedere ai populismi». Ma è populismo dire che un funzionario pubblico non può guadagnare quanto 51 dei suoi concittadini messi insieme?
Dice il rapporto Istat appena pubblicato che non c’è Regione italiana dove le persone siano in difficoltà gravissime quanto in Sicilia. Dove 661 mila famiglie, pari a 32,5 su 100 (sei volte di più rispetto alle Regioni più ricche) sopravvivono sotto la soglia della povertà. Per non dire delle 180 mila che, accusa uno studio della Fondazione Res, annaspano in una condizione di povertà estrema. «Nell’impossibilità di sopperire a quei beni e servizi considerati imprescindibili ed essenziali al fine di condurre una vita con standard minimamente accettabili».
Quanto alla disoccupazione «reale», spiega lo stesso dossier Res, è «al 32,8%. Tramutando le percentuali in numeri, in Sicilia risiedono 319 mila disoccupati e 351 mila forze di lavoro potenziali, in tutto 670 mila persone senza lavoro». L’«Indicatore sintetico di deprivazione» dell’Istat che misura la quota di famiglie angosciate dalla difficoltà di affrontare spese impreviste o pagare il mutuo o le bollette e perfino «a fare un pasto proteico almeno ogni due giorni» mette paura. E sfiora la metà delle famiglie residenti (47,6%) «ben oltre il doppio del dato medio nazionale, 22,3%».
Bene: in questo contesto di mari in tempesta e naufragi sociali, aziendali, umani, quella specie di lussuoso e dorato Bucintoro siculo che è il Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea Regionale Siciliana, continua a navigare come ai tempi belli. Al punto che perfino l’invito di Renzi ad applicare anche nell’isola i tagli per gli stipendi più alti è stato accolto più o meno come una interferenza che intacca la sacralità dell’autonomia. Gli altri Palazzi della Regione, a fine giugno, sembrano in verità aver dato una sforbiciata. E dopo una martellante offensiva prima del M5S e poi di Rosario Crocetta, decisissimo a uno scatto d’orgoglio dopo tante polemiche sulle contraddizioni della sua «rivoluzione» promessa, il tetto agli stipendi dei dirigenti (una miriade) è stato abbassato a 160 mila euro. «Ma non è chiaro se sono davvero lordi», precisa il grillino Giancarlo Cancellieri. «Cosa significa “trattamento economico annuo complessivo fiscale”? I contributi sono compresi o no? Sono dettagli che puzzano...». Dettagli non secondari: quei 160 mila euro sono già pari a tredici volte il reddito medio dei siciliani, che nel 2012 (ultimo dato disponibile) era di 12.722 euro ma oggi dovrebbe essere ancora più basso.
Fatto sta che, dopo aver incassato quel risultato come una vittoria politica personale sul conservatorismo della macchina che guida, il governatore ha tentato l’assalto all’Assemblea regionale: «Finiamola una volta per tutte: il Parlamento siciliano deve allineare gli stipendi dei suoi dirigenti a quelli della Regione: non può continuare a essere l’isola dei privilegi. Sarebbe un messaggio devastante in una situazione così difficile».
Risposta: picche. «Basta col populismo», ha spiegato giorni fa il presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, a Giacinto Pipitone, del Giornale di Sicilia . E dopo aver rivendicato di avere già ridotto il bilancio «da 162 a 149 milioni» (complimenti: solo il doppio abbondante della Lombardia, il triplo del Veneto e quasi il quintuplo dell’Emilia-Romagna!) nonché «previsto una riduzione delle spese per il personale del 10% in tre anni» nella scia del decreto Monti, ha ammonito che sì, certo, il decreto di Renzi «fissa il tetto massimo per le retribuzioni a 240 mila euro lordi». Però «Renzi ha escluso da questo tetto gli organi di rilievo costituzionale, quale è l’Ars. Dunque noi avremmo potuto prevedere perfino di pagare di più i nostri dipendenti». Testuale.
I diritti acquisiti, poi! Quelli dei cittadini comuni sono già stati stravolti? Uffa! «Questo Palazzo non si fa condizionare da un populismo che nel tempo, vedrete, si scontrerà con i giudizi scontati della Corte costituzionale e dei giudici del lavoro. Perfino Renzi ha previsto nel suo decreto che i trattamenti pensionistici maturati sono intoccabili». Di più: «Sarebbe stato facile per noi venire incontro alle pressioni della piazza e introdurre un tetto magari inferiore anche ai 160 mila euro. Ma, come insegnava De Gasperi, una cosa è guardare alla prossima campagna elettorale e altra cosa è pensare alle future generazioni». Le «future generazioni»? De Gasperi? De Gasperi tirato in ballo a difesa dell’arroccamento sui soldi? De Gasperi! Quello che andò in visita alla Casa Bianca con un cappotto che si era fatto prestare da Attilio Piccioni!
Conclusione: per i dirigenti dell’Ars, a differenza degli altri colleghi regionali siciliani, è stato fissato il tetto annuale di 240 mila euro. Pari all’indennità del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano o del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che a dirla tutta trova in busta paga 18 mila euro in meno.
In ogni caso, spiega un’Ansa, il tetto di 240 mila euro omnicomprensivo «non scatterà immediatamente per tutti i dipendenti: una norma transitoria, per la cui adozione il Consiglio delega alla rappresentanza permanente che tratta con i sindacati, permetterà a chi ha già maturato i requisiti per la pensione a domanda e a chi è vicino a maturarli, e i cui trattamenti economici superano l’importo di 240 mila euro, di mantenere la posizione economica in godimento, anche se entro un limite temporale». Traduzione: tranquilli, mandarini, i tagli varranno solo per chi verrà dopo di voi. E «le tabelle economiche saranno aggiornate con decorrenza 1 gennaio 2018». Campa cavallo...
Ma quanti sono, quei dirigenti dell’Ars che sventolando il vessillo dell’autonomia guadagnano oggi più del capo dello Stato? Tredici, secondo Live Sicilia. Incassano «dai 280 ai 330 mila euro annui» e per undici di loro il taglio dovrebbe essere solo un pizzicotto perché entro ottobre andranno in pensione. Quanto a quelli che stanno sopra i 201mila euro, dice una tabella distribuita dai grillini, sono addirittura 80 dei quali 29 in attività e 51 in (dorata) quiescenza. Chi sono? Quanti sono? Quanto prendono? Risposta della presidenza: top secret, c’è la privacy... Il garante ha già detto più volte che non è vero perché quelli sono soldi dei cittadini? Chissenefrega...
Secondo i dati forniti dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli, come ricorderete, i nostri dirigenti sono i più pagati dei grandi Paesi europei. I dirigenti di 1ª fascia in Germania hanno una busta paga 4,27 volte superiore a quella media dei propri concittadini, in Francia 5,21 volte, in Gran Bretagna 5,59 e in Italia 10,17. Una sproporzione che per i dirigenti più alti, cosa impensabile a Berlino, Londra o Parigi, schizza addirittura a 12,63 volte il reddito medio italiano.
Ma questa stortura, già offensiva, diventa in Sicilia insultante: quei 240 mila euro fissati come tetto ai dirigenti dell’Ars equivalgono infatti a 19 volte il reddito medio dei siciliani. Per non dire del segretario generale di Palazzo dei Normanni, lui pure pronto alla pensione, Sebastiano Di Bella. Il quale (e non lo affermano i grillini ma lo stesso governatore, Crocetta) avrebbe una busta paga di 650 mila euro l’anno: cinquantuno volte il reddito dei suoi concittadini.
E chiedere che la vaporosa e capricciosa Ars sia costretta a fare i conti con la povertà da spavento dei siciliani confermata dagli ultimi dati sarebbe demagogico, anti-autonomista e populista? Ma per favore...

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