Migranti a Lampedusa, il rischio che naufraghi l'emozione

14.10.2013 15:25
Categoria: Articoli giornale

Che fare di fronte a tragedie come quella di Lampedusa? Due strade, agire sul piano politico, sostenere azioni umanitarie. Ambedue importanti, sceglierne almeno una per dare seguito e senso alle emozioni. Mauro Magatti sul Corriere della Sera di domenica 13 ottobre.

A quante sollecitazioni estreme, come la morte in presa diretta di migliaia di uomini, donne e bambini, può reggere la nostra coscienza morale? E che cosa potranno lasciare dietro di loro quelle vite naufragate in mezzo al Mediterraneo, in un impossibile viaggio verso la speranza di una vita degna di questo nome?

Nel prossimo vertice Ue, il tema dei migranti sarà (finalmente) all’ordine del giorno. E questo è certamente un successo del governo italiano. Ed è probabile che, dietro la spinta dell’emozione di questi giorni, l’Unione europea si muova, se non altro per non perdere completamente la faccia. Ma se anche ciò accadesse, potremmo considerarci sollevati, in qualche modo esentati, dalla provocazione a cui, attraverso i media, siamo esposti in questi giorni? Noi sappiamo che l’empatia — cioè la capacità umana di mettersi nei panni dell’altro — è un meccanismo capace di attivare la nostra coscienza morale. Di fronte al dolore altrui, noi ci commuoviamo, nel senso che letteralmente siamo spinti a muoverci, a darci da fare. Tuttavia, questo meccanismo psico-fisiologico ha due gravi limitazioni. La prima è che la sua intensità si attenua quanto più cresce la distanza (fisica e/ affettiva) dall’altro e dal suo dolore. Cosicché, mentre avvertiamo senza filtri la sofferenza di un famigliare, restiamo indifferenti a quanto capita ad uno sconosciuto. L’empatia tende sempre a ripiegarsi, a chiudersi nel proprio gruppo di riferimento.

La seconda limitazione riguarda la quantità di sofferenza che possiamo sostenere: quanto più la dimensione del male cresce, tanto più ci sentiamo sovrastati al punto da dismettere la nostra sensibilità. Di fronte all’illimitato, diventiamo indifferenti.

Come contemporanei, noi siamo continuamente esposti, attraverso immagini in diretta, al dolore degli altri. Di migliaia di altri. Come in questi giorni, con i profughi africani. Una tale esposizione è in grado di commuoverci: guardando la Tv, ci sentiamo coinvolti e non possiamo che avvertire pietà umana. Ma, al tempo stesso, noi siamo semplici spettatori, cioè siamo lontani dalla scena in cui il dramma si svolge, e per questo, impotenti. Così l’impulso empatico rimane sospeso nel vuoto e, sommerso dalla velocità della vita, velocemente si disperde. Quello che ci rimane è un vago senso di condivisione associato a una presa d’atto della nostra estraneità.

Se c’è una globalizzazione della indifferenza, essa si radica in questi meccanismi psicologici le cui conseguenze sulla qualità umana e morale delle democrazie avanzate sono però molto serie. Tutto, alla fine, passa, tutto scorre senza lasciare traccia. Al punto che tutto finisce per essere accettabile.

Cosa possiamo fare, dunque, con noi stessi, con i nostri figli, con le nostre istituzioni? Come possiamo evitare di crogiolarci nell’emozione del momento lasciando così deteriorare la qualità della nostra vita personale e collettiva?

La domanda è tutt’altro che retorica perché tocca profondamente la nostra condizione di uomini e donne liberi.

Ci sono due modi per porsi sensatamente — vorrei dire umanamente — in questa situazione. Il primo consiste in una mobilitazione a sostegno di ciò che è in grado di rimuovere le cause di questi episodi. Questa risposta comincia nel momento in cui accettiamo di andare almeno un passo al di là del puro coinvolgimento emozionale, provando ad informarci e a discutere con altri per arrivare ad una valutazione un po’ più distaccata e qualificata e, soprattutto, a capire che cosa ci sta dietro, chi e come sta intervenendo, e che cosa si può fare per prevenire. Questa prima risposta può concretamente tradursi nella partecipazione alle tante forme attraverso cui l’opinione pubblica può oggi esprimersi, con lo scopo di creare un contesto più favorevole alla decisione delle istituzioni politiche. Oppure può prendere la via di un impegno, diretto o indiretto, con le organizzazioni che operano per affrontare e risolvere le cause del problema.

Il secondo modo, invece, è quello di partecipare attivamente, attraverso le reti esistenti, a una particolare vicenda umana. Nella serena consapevolezza che chi salva un uomo, salva il mondo. E dunque, entrare in rapporto con le organizzazioni che gestiranno, nei prossimi mesi, i tanti profughi e le loro vite, mettendo a disposizione tempo e risorse economiche o immobiliari, per trovare la soluzione positiva ad un caso concreto.

Che si prenda una strada o l’altra — ciascuna con i suoi limiti — non importa. Importa però che come cittadini ci sentiamo interpellati da questi fatti che sono la storia del nostro tempo. È capitato a tutti, studiando i fatti del passato, di chiedersi come sia stato possibile che anche le tragedie più scandalose siano passate sotto silenzio, con la colpevole complicità di chi ha accettato il ruolo passivo dello spettatore. Oggi, comunque la pensiamo, la Storia passa dal nostro mare, dai nostri schermi, dalle nostre città. Anche per noi, che siamo nella fortunata condizione di godere della libertà, la realtà continua a essere una domanda aperta, anche se spesso espressa, come scrive Rilke, in lingua straniera.

(Corriere della Sera, 13 ottobre 2013)

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