Ad Orbetello sulla Guzzi di mio padre

28.07.2013 11:38
Categoria: Articoli giornale

Michele Brambilla (La Stampa, 27 luglio 2013) raccoglie i ricordi di don Ciotti, che racconta delle sue vacanze. Da quelle con la famiglia, da ragazzo, a quelle "impegnate" da prete di frontiera.

Ecco qua un uomo felice delle sue vacanze di tutta la vita, anche se all’alba di 68 anni quasi fatti (li compie il 10 settembre) non è mai stato a Dubai o alle Maldive, e nemmeno a Capri; neppure ha memoria di un’estate in una pensione di Rimini.
Non sa che cosa voglia dire godersi un beato ozio, perché dice che la parola «vacanza» ha la stessa radice latina di «vacuum», «vuoto»: e lui pensa che ogni vuoto vada riempito «di responsabilità, consapevolezza, impegno». Ma stop. Altrimenti sembra una predica. E don Luigi Ciotti, anche se è un prete, non è un tipo da predica. Per lui utilizzare le vacanze per fare qualcosa di utile agli altri non è affatto un sacrificio, anzi è una gioia: «Dobbiamo uscire», mi spiega nel suo ufficio al Gruppo Abele, dove tutti lo chiamano semplicemente Luigi, «da questa idea “penitenziale” dell’impegno».
È felice come una Pasqua da quando, e sono ormai molti anni, può organizzare per sé e per migliaia di ragazzi le vacanze nei terreni confiscati alla mafia, dove si lavora duramente come contadini «perché scavando la terra si scava anche nella coscienza». Ma ce le racconterà, queste vacanze di «Libera», la rete di associazioni che ha costituito per combattere la criminalità ed educare alla legalità. La prima parte della conversazione coincide con la prima parte della vita.

I ricordi di un’infanzia, dice «povera ma felice». «Sono nato a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno, in un tempo in cui non c’era lavoro. I miei genitori emigrarono in Piemonte: prima ad Alba, poi a Cherasco, infine a Torino dove papà lavorava nel cantiere del futuro Politecnico. Per noi fare le vacanze voleva dire tornare, quando possibile, alle nostre montagne.
Ricordo il lungo viaggio da Torino, e in particolare l’ultimo tratto, quando il treno veniva agganciato da un’altra locomotiva in grado di spingerlo su fino a Calalzo di Cadore. Spossato dalla lunghezza del viaggio ma eccitato dall’imminenza dell’arrivo, mi affacciavo fuori dal finestrino e non staccavo gli occhi dal paesaggio. All’arrivo avevo tutto il viso annerito dai fumi della locomotiva a vapore.
«Non sempre, però, riuscivamo a tornare a casa. Un’estate prendemmo per un breve periodo una stanza in affitto a Val della Torre, a pochi chilometri da Torino, tra la Val di Susa e le Valli di Lanzo. Il richiamo della montagna, anche se non era la “nostra” montagna, restava fortissimo, e tale è rimasto ancora oggi».
Gli chiedo: mai stato al mare? E si scopre che l’ha visto, la prima volta, a otto anni, e solo per causa di forza maggiore: «Era il 1953: papà era stato mandato a lavorare alla Polverosa, nella Maremma toscana in provincia di Grosseto. Salivamo su una moto Guzzi e lui ci portava in spiaggia, dove aveva costruito un capanno tutto per noi. Erano bellissime quelle gite a Orbetello, in una costa ancora selvaggia. Ho memoria di vacanze sobrie, essenziali, senza lussi. Eppure io mi sono sentito sempre molto ricco. Ricco dell’affetto dei miei e delle mie sorelle».

Quando diventa adolescente, il futuro don Ciotti passa l’estate a fare lavoretti per contribuire all’economia familiare: «Davo una mano a un nostro vicino di casa, che si chiamava Ugo Pane e riparava pianoforti. Un anno riuscii ad andare al campo dell’Azione cattolica a Mompellato, oggi ai confini del parco naturale del Col del Lys. Fu un’esperienza molto bella».
Ma è nei primi anni Sessanta, quando comincia a formarsi quello che sarebbe diventato il Gruppo Abele, che la vita del giovane Luigi cambia. «Da allora, le mie vacanze hanno cominciato a essere le vacanze degli altri. Ma voglio chiarire subito: non è stata una rinuncia, una privazione. Non c’era niente di più bello, per me, che condividere ogni cosa, le gioie e le fatiche, con ragazzi in difficoltà».
Furono estati di campeggi, di escursioni con tanti figli di poveri immigrati dal Sud; o con ragazzi usciti dal carcere minorile. «Ricordo nel ’67 e ’68 la casa diroccata di Richiaglio, in Val di Viù, dove ci lavavamo nel torrente. E poi l’emozione che provai quando portai i ragazzi nella mia terra, a San Vito di Cadore. Un anno a Castiglion della Pescaia, un altro in Val Ferret...».
È a cavallo tra gli anni 60 e 70 che cominciano i «campi estivi» con il Gruppo Abele ormai costituitosi. Il primo in Valtellina, a Bormio, poi in Val d’Aosta, poi a Cesana Torinese... «Tanti amici ci hanno raggiunti in quegli anni per approfondire i temi del nostro impegno sociale: Gian Carlo Caselli, Romano Prodi, don Tonino Bello, don Franco Peradotto, don Luigi di Liegro, Gherardo Colombo, Marco Revelli, Gad Lerner, Gustavo Zagrebelsky. E naturalmente il mio maestro e vescovo, padre Michele Pellegrino».
Le «vacanze impegnate» (che non sono le «vacanze intelligenti» messe alla berlina da Alberto Sordi) cambiano a metà degli anni Novanta, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Don Ciotti si convince che bisogna mobilitarsi contro la mafia. È lui a promuovere una legge che porterà alla confisca dei beni dei mammasantissima e al loro riutilizzo sociale. Così, comincia l’avventura di «Libera», rete di 1600 associazioni che d’estate organizza vacanze di lavoro nei terreni e nei beni (alcuni sono aziende agricole) confiscate alla mafia. «Nell’arco di questi anni ci sono passati 60 mila ragazzi. Solo quest’estate saranno 10 mila!», dice con l’entusiasmo di un bambino, o meglio dell’infanzia evangelica.
Spiega: «Il mattino ci si alza presto per il lavoro nei campi, poi nel pomeriggio ci sono i momenti di formazione e la sera si sta insieme. Incontriamo la gente del posto, parliamo, leggiamo: mi piace immaginare queste esperienze come piccole palestre di democrazia».
Gli chiedo se non senta mai il bisogno di pensare a sé; soltanto a sé. «Quando ho potuto, mi sono preso qualche solitaria ora di libera uscita. E allora ho cercato d’istinto la strada in salita. Un tempo era per raggiungere l’eremo di Camaldoli. Oggi che l’agenda è molto più fitta è il Parco del Gran Paradiso. È in montagna che ritrovo la mia casa, il mio Cadore, l’origine che tutti noi in fondo desideriamo ritrovare. In quei momenti, immerso nel silenzio delle vette, un silenzio che per me è la più bella delle musiche, mi sento davvero in vacanza: in vacanza da me stesso per fare spazio a Dio».

(da La Stampa di sabato 27 luglio 2013)

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