Progressisti, smettete di rimpiangere il passato

17.07.2013 09:35
Categoria: Articoli giornale

Su "la Repubblica" del 16 luglio una riflessione di Michele Serra. Un tempo, dice, i riformisti erano identificati con il desiderio di cambiare lo stato delle cose. Poi questa strada si è smarrita.

Progressisti, smettete di rimpiangere il passato

di Michele Serra ("la Repubblica", 16 luglio 2013)

Se dire "qualcosa di sinistra" fosse così facile, in molti l'avrebbero già detta, questa cosa. O per ruolo politico o per dovere intellettuale o anche solo per fare bella figura. Ma così non è stato, specie negli ultimi anni; tanto da far sospettare (i più sospettosi) che la sinistra abbia trascurato apposta i suoi doveri e i suoi compiti, pur sapendo bene quali fossero, per viltà o per opportunismo; o da far temere (i più timorosi) che la sinistra abbia esaurito strada facendo la sua funzione storica, e taccia, dunque, non per calcolo ma per inettitudine. Per totale smarrimento.

Sono abbastanza vecchio di questi luoghi - la sinistra, le sue persone, le sue parole, i suoi giornali, i suoi interminabili dibattiti - da poter azzardare un'ipotesi un poco (solo un poco) più precisa. La sinistra, dalla Rivoluzione francese in poi, è quella vasta area della politica e del pensiero che pretende di organizzare il cambiamento della società. Prima interpretandolo e poi orientandolo. Progettare il cambiamento è la sua stessa funzione, la sua ragione d'essere; e il verbo "cambiare" è stato, per molte generazioni di intellettuali e di militanti, di uso quotidiano. Quasi stucchevole per quanto spesso lo si impiegava: l'Italia che cambia, cambiamo l'Italia, l'Italia da cambiare. Nella celebre definizione del giovane Marx, "il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato delle cose presente". È un assetto di pensiero del tutto radicale, si capisce; ma contiene lo stesso germe che anima i riformismi anche più blandi: lo "stato delle cose presente" è insoddisfacente e dunque va cambiato. Si deve lavorare per cambiarlo. Si deve studiare come cambiarlo (in meglio, si intende) e attraverso quali leve, quali mezzi. Il mondo deve migliorare e la storia deve andare avanti.

Per quanto approssimativa e schematica, la vecchia distinzione storica tra conservatori e progressisti, per generazioni, non ha conosciuto sostanziali smentite: la destra era per la conservazione, la sinistra per il progresso. Dire "qualcosa di sinistra", dunque, è dire qualcosa in grado di descrivere o anticipare o favorire o provocare un cambiamento. Le parole della sinistra dovrebbero essere (o provare a essere) in qualche modo preveggenti: aiutare a immaginare il futuro, ad architettarlo. Le famose "parole d'ordine" del passato, tutte, quelle giuste e quelle sbagliate, quelle intelligenti e quelle stupide, quelle nobili e quelle ignobili, erano comunque l'indicazione di un obiettivo da raggiungere, di un percorso da fare. Erano "dinamiche", forza in movimento.

Nel suo Manifesto dei conservatori (1972) Giuseppe Prezzolini attribuisce alla Destra "i libri e la cultura"; alla Sinistra le canzonette, la televisione, i consumi futili, le mode, l'irresistibile marea montante della massificazione. Per dire quanto fosse radicata - appena dieci anni prima che Berlusconi apparisse sulla scena - l'idea che il "cambiamento", virtuoso o vizioso non importa, fosse comunque qualcosa "di sinistra". Che riguardava la sinistra. Oggi (qui volevo arrivare) la sola traccia profondamente identitaria che la sinistra ha sempre avuto - la vocazione a cambiare "lo stato delle cose presente" - sembra perduta. Peggio, sembra che il cambiamento - proprio quello, massificante e mutageno, detestato dal conservatore Prezzolini e descritto con ben maggiore potenza e disperazione dal comunista Pasolini - abbia così spaventato la sinistra da al suo interno forti pulsioni conservatrici. Più che l'impulso a progettare "un altro cambiamento", ha pesato l'impulso a proteggersi da quello in corso. Ne è nata una sinistra-ossimoro, conservatrice e terrorizzata dai mutamenti in atto. Ed è soprattutto per questo, secondo me, che è così difficile dire "qualcosa di sinistra": perché la sinistra ha perduto le parole del cambiamento, a partire dalla parola "cambiamento". E dunque ha perduto le sue parole.

La si è nuovamente udita, quella parola, echeggiare come un esorcismo nelle tremende settimane successive al voto di febbraio. A pronunciarla fu Bersani, non si sa quanto memore dello spirito ottimista e "progressista" del riformismo emiliano nel quale si è fatto le ossa. Disse, per la precisione, che "non c'è responsabilità senza cambiamento" (parlava ai suoi, si è poi capito quanto inutilmente) e che "non c'è cambiamento senza responsabilità " (parlava a Grillo, si è poi capito quanto inutilmente). L'ambito era - come dire - strettamente politologico, tattico e non strategico, e non scomodava certo sconquassi negli assetti economici e sociali, tanto meno modelli di sviluppo alternativi. Ma in quanto capo della sinistra Bersani "sapeva", direi istintivamente, che la domanda (tumultuosa, quasi smaniosa) di cambiamento uscita dalle urne non poteva che investire in pieno la sinistra, fisiologicamente: la richiamava bruscamente alla sua funzione tradita o comunque sbiadita. Rovesciandosi a valanga verso le Cinque Stelle, la speranza di "cambiare le cose" per la prima volta abbandonava in misura così massiccia e così allarmante la sinistra italiana.

La verità - forse - è che nessuno, in questa fase, riesce non dico a determinare, ma ad azzardare i connotati del futuro, ivi compreso il futuro prossimo. E non per caso l'aspetto più debole - e più ridicolo, francamente - del movimento di Grillo e Casaleggio è quello che affida al web una specie di palingenesi politica, e di reincarnazione della democrazia, che fa impallidire, per ingenuità, il mito della "futura umanità" forgiata "nei campi e nelle officine". Che il vecchio materialismo scientifico possa lasciare il campo alla fede fantascientifica in un Avvento internautico non sembrerebbe proprio - quanto a cambiamento - un passo avanti. Riassumendo. Direi che un buon criterio, di qui in avanti, per provare a dire "qualcosa di sinistra", e per capire se qualcuno sta dicendo davvero "qualcosa di sinistra", sia valutare, sempre, se e quanto questa cosa contiene il proposito, e magari la capacità, di incidere nel futuro, anche un piccolo pezzo di futuro, e di immaginarlo più equo, e migliore. Non è più vero, neanche per la più settaria delle persone di sinistra, che senza sinistra non c'è futuro: il futuro ha già dimostrato di poterne fare allegramente a meno, della sinistra. Ma è certamente vero che senza futuro non c'è una sinistra, che senza futuro la sinistra muore. Dunque la paura del cambiamento - qualunque sorpresa, qualunque incognita possa riservarci il futuro - è per la sinistra un indugio mortale.

Ogni pigrizia conservatrice, dentro la sinistra e dentro le sue parole, parla prima di tutto di quella paura. Compresa la paura di sbilanciarsi, di dire cose azzardate, di sembrare stravaganti o ingenui o imprecisi. La paura dell'errore intellettuale. Ma per dire qualcosa di sinistra sarà obbligatorio, di qui in poi, ricominciare a rischiare. Chi si ferma è perduto. E chi tace acconsente.

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