Non è un Paese per mamme, una cultura da combattere. Annamaria Furlan su Il Secolo XIX

08.03.2018 18:08

Anche quest’anno sono tante le iniziative del sindacato in tutta Europa e nel nostro paese per celebrare l’8 marzo. È una giornata di mobilitazione e di denuncia, non solo contro le troppe, continue violenze e molestie nei confronti delle donne, ma anche contro i ritardi sociali, economici, culturali che ostacolano una vera emancipazione e parità tra uomo e donna. Le donne, soprattutto le donne madri, hanno pagato il prezzo più alto della crisi economica da cui stiamo lentamente uscendo. Sono le prime ad essere precipitate nell’area della emarginazione sociale, della solitudine, della povertà. Bisogna saper interpretare il loro disagio, le difficoltà, in certi casi anche la rabbia nei confronti di una società che spesso non riconosce il ruolo, la dignità e la funzione così delicata ed importante della donna. Dobbiamo fare tutti di più, sapendo che il lavoro rimane il primo diritto di cittadinanza e di emancipazione da conquistare. Il tema del lavoro deve rappresentare la prima preoccupazione di tutte le forze politiche uscite dal voto alle quali chiediamo ora senso di responsabilità e generosità, più volte richiamati con equilibrio e saggezza dal Presidente della Repubblica Mattarella.

Basta vedere i dati relativi alla disoccupazione femminile in Italia, secondo cui le donne, soprattutto nelle regioni meridionali, nonostante qualche timido progresso nel 2017, sono ancora escluse da ogni possibilità di riscatto e di partecipazione alla vita economica del paese. Sono 13,3 milioni gli uomini occupati in Italia contro 9,5 milioni di donne. E ancora più preoccupante è il divario che emerge dal tasso di inattività: si scende al 25% per il tasso di inattività maschile, ma si sale al 44,6% per quello femminile. Dati emblematici. Ma ci sono tanti altri parametri che confermano l’esistenza di un divario di genere e di pari opportunità tra uomini e donne. In media in Europa le donne guadagnano il 17% in meno rispetto agli uomini. Ai ritmi attuali, dovranno attendere più di 70 anni per essere pagate alla stessa stregua degli altri. Uno dei motivi è che le donne hanno più difficoltà a conciliare impegni di lavoro e familiari. Di conseguenza, sono loro soprattutto a scegliere il lavoro a tempo parziale e ad interrompere continuamente la propria carriera, con conseguenze dirette sui salari. Il “gender pay gap” rimane un tema cruciale per il sindacato nella lotta contro le discriminazioni legate al genere. La parità di retribuzione sarebbe il più grande stimolo all’economia europea e solleverebbe milioni di donne dalla emarginazione. Eliminerebbe di fatto un’altra disparità, direttamente collegata alla prima: il gap pensionistico che vede nel nostro Paese le donne percepire un assegno di pensione inferiore di circa il 30% rispetto agli uomini. Ma è soprattutto la maternità che viene vista ancora come un ostacolo all’ingresso ed alla progressione di carriera delle donne. Non è un caso se in fatto di natalità il nostro Paese sia tra gli ultimi posti in Europa, come hanno confermato recentemente i dati Istat. Una donna su 3 in Italia continua a lasciare il lavoro dopo la nascita del primo figlio. Rispetto al resto dell’Europa sono ancora poche le madri italiane con un bambino che lavorano (57,8% contro 63,4%) e, soprattutto, se paragonata agli uomini (86%). Quando poi i bambini crescono i numeri crollano al 35,5% (la media Ue è del 45,6%). Sarebbe davvero un segnale importante se tutte le donne elette in questi giorni nel nostro parlamento si battessero unite, senza distinzione ideologica o di partito, insieme al sindacato ed alle associazioni del Forum delle Famiglie, per un vero “patto per la natalità” nel nostro Paese.

Sappiamo bene che in molti casi la rinuncia alla maternità va collegata direttamente anche all’inadeguatezza di servizi a sostegno della genitorialità, ad un welfare insufficiente che non aiuta la crescita dei nuclei familiari. In Italia solo il 18% dei bambini trova posto negli asili nido pubblici, mancano politiche finalizzate alla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, allo smart working, alla flessibilità negli orari. Non solo un problema di leggi da far rispettare. È una questione culturale prima ancora che di regole. Ma dobbiamo fare di più anche con la contrattazione nazionale, aziendale e nei territori, ponendo le condizioni per una valorizzazione ed una specificità del lavoro femminile. Per questo stiamo sollecitando, insieme a tutto il sindacato europeo, l’approvazione della Direttiva europea sull’equilibrio vita – lavoro, attualmente in discussione al Consiglio Europeo, in modo da promuovere l’occupazione femminile, rafforzare i congedi parentali retribuiti e sostenere così la scelta della maternità. Il nostro paese deve intestarsi questa battaglia politica e sociale. Ecco perché speriamo che il nuovo governo metta tra i primi punti programmatici il rilancio delle politiche attive del lavoro, studiare insieme alle parti sociali sgravi fiscali specifici per chi assume donne lavoratrici, porre le basi per una migliore conciliazione tra cura della famiglia ed occupazione. Non è vero che il lavoro delle donne va a scapito della famiglia. È vero semmai il contrario: il lavoro è lo strumento per sostenere concretamente la formazione di giovani nuclei familiari e quindi la maternità. Il problema famiglia/lavoro deve essere affrontato nella consapevolezza che si tratta di un investimento per lo sviluppo del nostro Paese e non di un costo per la società. Solo così potremo disegnare nuovi orizzonti di crescita e celebrare il ruolo straordinario delle donne in una società sempre più multietnica e multiculturale.

Annamaria Furlan

8 marzo 2018 - Il Secolo XIX

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