Una scuola «divertente» è possibile

16.02.2016 20:05

Un sogno? Un progetto utopico? Di certo un’alternativa al modo di fare scuola oggi, non facile da impostare e non priva di difficoltà. Ma almeno in questo – raggiungere i traguardi con fatica – l’attuale scuola ci ha già abituato. Per Giacomo Stella, ordinario di Psicologia clinica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, «tutta un’altra scuola» è possibile. Una scuola “divertente” dove «l’insegnamento deve trasformarsi in un processo di promozione dell’apprendimento». Nell’articolo di Enrico Lenzi (Avvenire, 11 febbraio 2016), le considerazioni e le proposte del professore universitario, accompagnate dai casi concreti raccolti nella sua lunga esperienza sul campo.

La scuola migliore? «Quella difficile». Il modo migliore per apprendere? Quello che prevede «memorizzazione, esercizio e sforzo». L’uso delle tecnologie nella didattica? «Soltanto un modo per facilitare lo studente che in questo modo non impara».

È davvero un’immagine critica quella che dipinge Giacomo Stella nel suo Tutta un’altra scuola! (Giunti, pagine 124, euro 10,00), che come sottotitolo recita significativamente «quella di oggi ha i giorni contati».

Di certo, già ora, la scuola può essere un luogo da incubo e causa di frustrazioni. Lo sanno bene gli alunni che mostrano qualche difficoltà di apprendimento. «Se il ragazzo non impara il problema è della famiglia» scrive nel suo libro Stella, partendo da casi concreti di studenti che sono dislessici, disgrafici e discalculici, cioè presentano disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere, scrivere e calcolare in modo corretto e fluente che si manifestano con l’inizio della scolarizzazione.

Spesso per loro si apre un lungo periodo di lotte, frustrazioni e incomprensioni. «Quando un bambino o in ragazzo non impara, o non segue in cosiddetto “ritmo della classe” – prosegue Stella raccontando episodi reali – i docenti chiedono con forza una diagnosi per sentirsi tranquilli e garantire la promozione ai dislessici, senza essere costretti a cambiare modo di insegnare». Già, perché a questi ragazzi – ma in fondo a tutti gli studenti – è possibile offrire una alternativa al percorso «lacrime e sangue».

E ancora una volta in gioco entrano soprattutto i docenti, anche se, sottolinea l’autore, «a scuola non stanno male solo gli scolari o gli studenti. Ci sono anche molti insegnanti che hanno gli stessi sintomi dei loro studenti: vanno a scuola malvolentieri, restano spesso a casa, sono frustrati e a volte si sentono un po’ perseguitati dal dirigente e dalle famiglie». Una sensazione, a onor del vero, frutto di una progressiva perdita di autorevolezza sociale e di ruolo, passando da una situazione da «monarca assoluto» a «impiegato statale col posto fisso», che deve rendere conto del suo operato alle famiglie.

Non solo: la scuola oggi nell’era di Internet non è più l’unico luogo di trasmissione del sapere e persino le nuove tecnologie sono viste come un nemico dell’apprendimento vero, quello che ancora prevede la lezione classica, che tutti noi abbiamo sperimentato a scuola, il fissare traguardi di competenze e conoscenze uguali per tutti (la cosiddetta scuola uguale per tutti che non fa differenze), ma senza prevedere percorsi che aiutino tutti a sviluppare le proprie potenzialità (caratteristica di una vera scuola equa, capace di guardare alle esigenze di tutti), l’utilizzo del voto come unico metro asettico per la valutazione.

Uno scenario che va stretto a tutti quei ragazzi che presentano difficoltà e, ai quali, l’unico modo per cercare di ottenere davvero pari opportunità sembra essere quello di veder certificata la propria disabilità, con un marchio che li seguirà per tutta la loro vita scolastica.

Insomma, sottolinea Stella, che è ordinario di Psicologia clinica al dipartimento di Educazione e scienze umane dall’Università di Modena e Reggio Emilia e fondatore dell’Associazione italiana dislessia, spesso questo passaggio può portare la classe a sviluppare una sorta di «commiserazione, che non è comprensione del problema, bensì l’anticamera dell’isolamento o peggio del conflitto».

Si torna, insomma, alla scuola che per essere seria deve essere difficile, richiedere solo sacrificio e fatica. Ma davvero non si può impostare diversamente la scuola, facendola abbinare a parole come «curiosità, scoperta e divertimento?», si domanda l’autore, che nel libro cerca di dimostrare come tutto questo sia possibile, anche se questa volta «la fatica» viene chiesta ai docenti.

Alcuni esempi? «Non capisco come si possa suscitare oggi il desiderio di scoperta negli studenti se si mette fuori dal recinto delle possibilità l’uso didattico degli strumenti multimediali», dimenticandosi che per farli funzionare o impostare la soluzione di un problema serve sempre il ragionamento dell’essere umano.

E poi per i casi di alunni dislessici o discalculici l’uso degli strumenti diventano indispensabili. Anche la lezione «frontale», cioè quella in cui il docente in cattedra trasmette il sapere agli studenti, dovrebbe essere superata con «la classe rovesciata», partendo «dall’idea che il sapere non si trasmette, ma richiede un processo di ricerca attiva».

Insomma «l’insegnamento deve trasformarsi in un processo di promozione dell’apprendimento». Considerazioni e proposte che Stella accompagna anche con casi concreti, raccolti nella sua lunga esperienza sul campo.

«Bisogna suscitare il desiderio, bisogna appassionare gli studenti, l’insegnante deve ritrovare il suo ruolo di magister, di affabulatore, di incantatore di serpenti» scrive nel capitolo finale, che punta anche a fornire un piccolo ricettario di proposte per invertire la rotta. Sette punti che partono dalla rivoluzione del tempo scuola, che tenga conto sia delle lezioni, ma anche delle altre attività extrascolastiche apprezzate dagli studenti.

Anche per questo – seconda regola – dovrebbero scomparire i compiti a casa, sostituiti magari da ricerche e approfondimenti di quanto appreso a lezione. Terzo passaggio l’applicazione del principio di equità, facendo diventare la classe una comunità che educa al rispetto delle idee e delle persone che le esprimono. In una classe così il docente non può essere soltanto colui che trasmette ciò che sa, ma «sollecitare, suggerire, organizzare e aiutare i processi di formalizzazione della conoscenza».

Aiuterebbe – quinto punto – pure una potatura dei programmi, accompagnata – sesta proposta dell’autore – dall’introduzione in modo sistematico degli strumenti multimediali nella didattica. Piuttosto bizzarro può apparire il settimo punto: «felpa e jeans per educare alla sobrietà: non è una questione di omologazione o di divieti, ma la necessità di restituire uno spazio e un senso allo stare dentro alla scuola, senza cercare eccentricità per imporsi all’attenzione».

Un sogno? Un progetto utopico? Di certo una alternativa al modo di fare scuola oggi, non facile da impostare e non priva di difficoltà. Ma almeno in questo – raggiungere i traguardi con fatica – l’attuale scuola ci ha già abituato. E leggendo questo libro, l’impressione è che non sia impossibile. Basta volerlo tentare. Allora sarà davvero «tutta un’altra scuola».