Torri Gemelle e Sarajevo. Due sberle all'ottimismo liberale

10.09.2021 10:37
Categoria: Articoli giornale, POLITICA, STORIA
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Giovanni Orsina, su La Stampa del 1o settembre 2021, nel ventesimo anniversario dell'attacco alle Torri Gemelle rilegge l'evento, e le sue conseguenze, in parallelo con quanto accaduto quasi un secolo prima (attentato di Sarajevo e tragedie successive). La lezione che ne trae è un monito contro "gli eccessi di fiducia negli automatismi della storia".

George W. Bush è stato spesso paragonato a Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti durante la Prima guerra mondiale, perché entrambi hanno affrontato crisi storiche di prima grandezza con progetti ambiziosi imperniati sui valori americani. Le comparazioni storiche, naturalmente, sono sempre pericolose. Se però lo facciamo a mo’ di gioco intellettuale e senza la minima pretesa di «scientificità», possiamo forse provare a estendere il parallelismo. Possiamo provare a immaginare, insomma, che l’11 settembre abbia svolto un ruolo storico simile a quello della Grande Guerra, e i vent’anni che ci separano dall’attacco alle Torri Gemelle corrispondano quindi al periodo compreso tra i due conflitti mondiali. Vediamo questo gioco fin dove ci porta.
L’11 settembre del 2001 e il 28 giugno del 1914 – il giorno dell’attentato di Sarajevo – giungono entrambi al culmine di una lunga stagione di ottimismo liberale. Della prima di quelle stagioni, passata non per caso alla storia col nome di Belle Époque, sappiamo ormai moltissimo. Con la seconda invece, i «lunghi» anni Novanta apertisi nel novembre del 1989 col crollo del Muro di Berlino e chiusi, appunto, dai kamikaze di al-Qaeda, stiamo appena cominciando a fare i conti. Lo storico Tony Judt li ha impietosamente definiti «anni divorati dalle locuste», e forse ha esagerato. Tuttavia è difficile dissipare l’impressione che quella stagione sia stata segnata, in politica e nella cultura, da un eccesso di fiducia negli automatismi della Storia, dalla convinzione che l’umanità fosse ormai entrata in un meraviglioso mondo nuovo fatto di infinite possibilità e di problemi che si risolvono da sé. Un’impressione che riporta alla mente una poesia di Montale pubblicata in realtà vent’anni prima: «Credi che il pessimismo / sia davvero esistito? Se mi guardo / d’attorno non ne è traccia (...) / Abbiamo ben grattato col raschino / ogni eruzione di pensiero. Ora / tutti i colori esaltano la nostra tavolozza, / escluso il nero».
Nel momento in cui Gavrilo Princip e Osama bin Laden hanno rimesso il nero sulla tavolozza, è diventato urgente provare a ricostruire una qualche forma di ordine. La guerra al terrorismo può essere letta anche come un tentativo di riportare sotto controllo processi la cui governabilità non era più garantita dagli automatismi della Storia. Cavalcando l’onda emotiva generata dall’11 settembre e facendo forza sulla presenza di un nemico, Bush ha proposto di ripristinare un confine netto tra il bene (i valori occidentali) e il male (i disvalori dell’islamismo radicale), e su quel confine metaforico ha schierato la superpotenza americana. La portata universalistica e globale del progetto neoconservatore, d’altra parte, ha dimostrato pure quanto profonda fosse stata la trasformazione culturale culminata nei lunghi anni 90. La guerra al terrorismo, in fondo, non ha rappresentato affatto un tentativo di seppellire l’ottimismo liberale – ma, al contrario, di rilanciarlo muscolarmente.
È bastato qualche anno, però, perché il povero ottimismo liberale prendesse un’altra sberla: la Grande Recessione. Esattamente come ottant’anni prima ne aveva presa una devastante con la Grande Depressione, nel decimo anniversario del trattato di pace di Versailles. Se negli anni Trenta la crisi economica rilancia il nazionalismo radicale, a partire ovviamente dalla conquista nazista della Germania, nel secondo decennio del XXI secolo dà forza al cosiddetto populismo. Qui il parallelismo si fa più complicato: al netto degli isterismi patologici che caratterizzano la nostra epoca ipermediatizzata, la sfida populista di oggi non è paragonabile a quella nazionalista di ieri né per radicalismo antiliberale né per forza d’urto. E non lo è anche perché gli umani hanno conservato memoria delle catastrofi degli anni Trenta e non ambiscono a riviverle, e perché le opzioni politiche che allora apparivano credibili e vitali – il fascismo e il comunismo – adesso non lo sono più. Le comparazioni storiche, del resto, non possono che essere assai imperfette proprio per questa ragione: perché quel che viene dopo «conosce» quel che è venuto prima, ed è plasmato da questa sua sapienza.
Il ragionamento sui tempi paralleli potrebbe chiudersi con l’assimilazione della pandemia alla Seconda guerra mondiale. O andare magari ancora oltre: c’è chi – come lo storico Niall Ferguson, ad esempio – ritiene che la competizione tra Stati Uniti e Cina sia una nuova Guerra Fredda. Ma qui mi fermerei: anche se in tutte le coppie che abbiamo visto finora il secondo evento era più piccolo del primo, la pandemia è troppo diversa dal conflitto del 1939-1945 per reggere il confronto. E poi, nel 1945 l’Europa era piena di soldati americani. Oggi l’Afghanistan ne è vuoto.

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