L'amaro gusto di prevaricare

03.10.2016 16:39
Categoria: Articoli giornale, SCUOLA

Abbiamo già pubblicato un articolo sulla tragica vicenda di Emilie vittima, in Francia, di bullismo. Ritorniamo sulla vicenda con la riflessione di Marina Corradi (Avvenire del 1° ottobre 2016). La giornalista e scrittrice si chiede da dove venga e sia possibile tanta diffusa crudeltà nei giovani. Richiamando l'intervento di Sergio Mattarella per l'avvio dell'anno scolastico ripropone la necessità di un grande patto tra scuola, famiglie, mondo dei media e dello spettacolo per segnare ed educare a quei limiti invalicabili il cui superamento non può essere sopportato.

«Delle ragazze di prima che frequentavano il mio liceo se la prendevano con un ragazzo disabile sull’autobus, facendogli fare cose stupide a cui tutti ridevano, oppure gli mettevano fuori dal finestrino il suo pupazzo preferito facendogli credere che l’avrebbero buttato di sotto, e lui piangeva…».
Se sul web cercate alla voce 'storie di bullismo', questa è la più 'innocente' che potete trovare: un ragazzino disabile che piange perché i compagni lo deridono e lo fanno soffrire, minacciando anche il suo peluche. Poi c’è ben di peggio, umiliazioni, vessazioni, addirittura riprese da chi le compie: come in quel video di un paio di anni fa in cui un ragazzo handicappato veniva schernito e deriso davanti a tutta la classe. Secondo un’indagine dell’Istat, nel 2014 un adolescente su due in Italia era stato oggetto almeno una volta di una prepotenza da parte dei compagni. Bullismo: non episodi isolati, ma come una strana crudeltà che si diffonde fra i più giovani.
Si è sentito in dovere di parlarne il presidente Mattarella ieri, davanti agli studenti di Sondrio. «Questo odioso fenomeno di accanimento contro chi non si omologa, o semplicemente viene visto e perseguitato come debole o come 'diverso'», ha detto. E proprio in questi giorni è apparsa sulle pagine dei giornali e nel web la storia di Emilie, la diciassettenne francese che si è tolta la vita al termine di una lunga serie di persecuzioni in classe. Lei è morta, ma i suoi genitori hanno reso pubblico il suo diario, che ha dell’incredibile: incredibile come nessuno dei professori abbia visto, come, a casa, nessuno si sia accorto di niente.
Come si possa morire a 17 anni, perché i compagni ti tormentano in quanto non vesti, non parli, non sei come loro. L’emergere dalle cronache di tragedie come questa, e nemmeno per la prima volta, porta la generazione degli adulti a farsi delle domande. Ma noi, da ragazzi, eravamo altrettanto crudeli? ci chiediamo disorientati. E, andando indietro con la memoria, ricordiamo che anche allora c’erano i branchi, le divisioni invalicabili, gli abiti che marcavano l’appartenenza a questo o quel giro; che c’era la cattiveria e la emarginazione, spesso, dei più timidi; e però non ricordiamo che si arrivasse a maltrattare un handicappato, a persecuzioni metodiche e organizzate come quelle di cui leggiamo oggi.
Sembra quasi che alle nuove generazioni manchi il senso di un limite, di una linea invalicabile fra lo scherzo di cattivo gusto e la autentica persecuzione. E, insieme, che sia diffusa in tanti una sorta di percezione di impunità, tale che non esitano a filmare le stesse scene che poi palesemente li accusano.
Certo, l’avvento dei cellulari ha rivoluzionato anche l’adolescenza, e uno smartphone e un pc in mano a dei ragazzini possono diventare un gioco distruttivo. Ma, al di là delle drammatiche derive del cyberbullismo, resta un interrogativo di fondo: questa crudeltà diffusa, da dove viene, e perché?
Quando a compiere certe violenze sono ragazzi di quindici o sedici anni, e anche meno, sembra chiaro che padri e madri devono farsi delle domande. Si è stati forse troppo accondiscendenti con questa generazione di figli, spesso unici, cui si è dato materialmente anche troppo? Un figlio somiglia a un fiume: ha bisogno di una direzione, e di due argini. Ora, leggendo certe storie, sembra che la direzione data sia spesso confusa, e gli argini manchino. Gli argini, i limiti invalicabili, erano nelle vecchie famiglie un compito paterno; e forse questo nostro tempo che ha combattuto e travolto insieme il padre e ogni principio di autorità, ci lascia ora vedere ciò che resta, quando si manda in frantumi un’asse portante della educazione.
O addirittura il disordine che vediamo è il frutto di un anello interrotto nella trasmissione generazionale: nel dominio del relativismo assoluto si allarga un’aura di incertezza su ciò che è bene, e ciò che è indiscutibilmente male. Ha detto il presidente Mattarella ieri che contro la deriva del bullismo «è necessario un grande patto tra scuola, famiglia, forze dell’ordine, magistratura, mondo dei media e dello spettacolo. Un’azione congiunta, capace non soltanto di reprimere ma, soprattutto, di prevenire, con una vera e propria campagna educativa che arrivi al cuore e alla mente dei giovani».
Ben venga questa azione congiunta, e, speriamo, condivisa e incisiva. Anche se chi di noi ha figli sa quanto poco in fondo si educhi con le parole, anche con le migliori; e quanto, invece, con il proprio essere, con quello che i figli vedono in noi. Così che un ragazzo che tormenta un compagno più debole o 'diverso' – per pelle o per indole o per qualsiasi altro motivo – dovrebbe, prima di tutto, porre una ineludibile domanda ai suoi genitori: dove e come ha imparato quel disprezzo, e quell’amaro gusto di prevaricare. E chiamare alla risposta utile e ricostruttiva.

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