La lezione dei piccoli maestri

11.07.2016 12:19
Categoria: Articoli giornale, SCUOLA

Viviamo, non da oggi, in una società in cui è venuta meno l'autorevolezza. Così seguaci, discepoli, follower hanno perso i loro punti di riferimento. Ma una soluzione c'è: tramontati gli interpreti capaci di un grande pensiero, ci aggrappiamo persino con sollievo a eroici insegnanti che ancora abitano la scuola italiana. (Davide Ferrario, Corriere della Sera del 10 luglio 2016)

La cronaca propone periodicamente storie di genitori che aggrediscono professori rei di essere troppo severi con i loro figli: in questo contesto, che senso ha oggi la figura del «maestro»? Sono vicende impensabili anche solo una decina di anni fa, nelle quali è evidente che il rispetto dovuto al ruolo sociale dell'insegnante è stato annullato da un mutamento antropologico e culturale. Chi sa conta meno di chi ha. Ma anche a livelli più alti è difficile pensare a intellettuali che si pongano, come nel passato, quali maestri capaci di rappresentare qualcosa di più grande di loro stessi. Questo tipo di figura è stata sostituita nella cultura di massa da quella dell'opinionista, un tecnico del pensiero in grado di esprimere pareri più o meno su tutto, ma privo dell'autorevolezza morale associata al termine «maestro».
Forse il problema si pone proprio in questi termini: una crisi generale del concetto di autorevolezza, quella forma di potere basato sul valore morale di una persona che è sempre stato tipico dei maestri fin dall'antichità. Senza autorevolezza non esiste credibilità nel rapporto tra maestro e discepolo; e, paradossalmente, la mancanza di autorevolezza crea i presupposti per l'autoritarismo. Infatti viviamo in un'epoca ampiamente condizionata dal culto delle personalità, presente in modo pervasivo dovunque e moltiplicato dai mezzi di comunicazione.
Ci sono personaggi globalizzati — cantanti, scrittori, filosofi — che sembrano occupare il ruolo sociale una volta riservato ai maestri: uomini e donne seguiti da un vero culto capace di influenzare le vite di molti seguaci, discepoli, follower... Ma è qualcosa che assomiglia più alle garanzie consumistiche offerte da un brand che non alla tradizionale autorità morale dei maestri di un tempo. Compri un paio di scarpe come vedi un film o leggi un libro o guardi un quadro perché il marchio riconosciuto offre sicurezza. Indizio chiaro che il sistema dà una risposta — ampiamente inadeguata a soddisfarla davvero — a una domanda reale e impellente da parte della società, che forse mai come oggi, in un mondo fortemente disorientato, ha bisogno di veri maestri. Ma in che modo il ruolo del maestro ha cominciato a venir meno?
Una decina d'anni fa mi misi in testa di girare un film sugli anni della lotta armata. Non intendevo fare un film nostalgico o provocatorio; o che tirasse le somme di un'epoca. Volevo fare un film per quelli che non c'erano, per provare a rappresentare ai ragazzi il groviglio di sentimenti e fatti degli anni Settanta. Così decisi di chiedere direttamente a loro che cosa ne pensassero. Tramite la rivista mensile di «Smemoranda» lanciai un appello a lettori e lettrici per avere opinioni, suggerimenti, richieste. Fui sommerso da un'imprevedibile mole di messaggi — molti dei quali chilometrici, talvolta veri e propri sfoghi. Tutti però avevano un denominatore comune, un pensiero che andava pressappoco così: com'è possibile che quegli anni, di cui sento parlare in famiglia con rimpianto oppure con entusiasmo, abbiano prodotto dei genitori come i nostri?6
La distanza tra mito evocato e realtà quotidiana, stando a chi mi scriveva, era così devastante da fare male e da produrre un effetto di sostanziale sfiducia nei confronti di padri e madri: che venivano considerati magari brave persone e genitori responsabili, ma riferimenti educativi (maestri) assolutamente inaffidabili.
Al di là del fatto specifico, tutto questo rivela una cosa fondamentale per la natura di chi si trova a ricoprire il ruolo di maestro di vita: quello che dici e predichi perde ogni valore se non sei credibile tu in quanto persona. La pratica può essere delle più diverse — da quella mielosamente hollywoodiana del professore de L'attimo fuggente alla dura disciplina dei maestri d'arme — ma si basa inevitabilmente su una forma di sincerità e di coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, che è la sola garanzia che il discepolo ti segua davvero.
Maestro è principalmente colui che dà esempio, non uno che insegna, anche se le due cose talvolta si sovrappongono. È quindi qualcosa di strettamente legato alla relazione diretta, personale: il che spiega perché sia così difficile trovare maestri in una dimensione come la nostra, liquidamente interconnessa ma remota dai fatti concreti, nella quale le cose si imparano senza associarle a un'esperienza effettiva. E si capisce anche perché, una volta scomparso lui o lei, dell'insegnamento del maestro si faccia spesso cattivo uso. Basta pensare cosa hanno fatto e fanno tutte le religioni organizzate dei fondamenti dei loro originatori, divini o meno: nel Vangelo l'appellativo con cui tutti si rivolgono a Gesù non è «Figlio di Dio», ma appunto «Maestro». Oppure al modo in cui l'autorità dei grandi pensatori antichi è stata utilizzata dal Medioevo fino all'Illuminismo per affossare la ricerca del nuovo in nome dell'ipse dixit.
Il ruolo del maestro è quindi irrimediabilmente perduto? No. Solo che non dobbiamo andare a cercare esempi nell'impalpabilità della cultura di massa, ma sotto casa, non lontano da noi. Durante le riprese del documentario che sto girando in questi mesi, ho conosciuto Noman Ali Hussein. E un ragazzo pachistano di 23 anni, venuto in Italia quando ne aveva otto. Fa l'operaio metalmeccanico, vive a Brescia, è grosso come un armadio e ha un accento padano che nemmeno Salvini. L'ho intervistato sulla sua conoscenza della strage di Piazza della Loggia, perché ai tempi delle superiori aveva lavorato un anno intero su quella memoria e con risultati tali che lui e i suoi compagni erano stati invitati al Quirinale; e il discorso pronunciato da Ali aveva commosso Napolitano.
Ali, con il suo aspetto da Garrone di Cuore, è il prototipo dell'italiano del futuro, se un futuro avremo. Un cittadino nuovo, capace di mescolare la serietà dell'immigrato con la vivacità del carattere italiano; un giovane convinto che la cittadinanza è un diritto attivo, qualcosa che si deve coltivare attraverso la partecipazione. Ali esprime tutto questo con parole semplici e chiare. E se gli chiedi come ha fatto a diventare così, risponde senza esitazione: «Grazie alla scuola» — un istituto di avviamento professionale, il Cfp «Rodolfo Vantini» di Brescia. E cita subito dopo il suo professore di lettere, Diego Mutti, che ho voluto conoscere: un giovane laureato che è andato a insegnare in un istituto professionale, piuttosto che in un liceo, perché si sentiva più utile lì. Con assoluta umiltà e dedizione sta costruendo i cittadini di domani a partire da un materiale umano grezzo ma meravigliosamente plasmabile.
I Grandi Maestri sono forse scomparsi, ma esiste un esercito silenzioso di «piccoli maestri» che continua a resistere e a lavorare nella scuola italiana perennemente sotto assedio. Risultano ancora credibili perché non si limitano a fare gli insegnanti, ma possiedono quella che un termine desueto definiva «vocazione», la stessa parola che si usava per i religiosi. Più laicamente, si tratta di saper conoscere e praticare quel formidabile processo di interazione umana che è l'educazione. Infatti la misura della qualità di un maestro non sta tanto nei risultati raggiunti dal suo pensiero e dalla sua arte, quanto nel modo in cui riesce a suscitare nel discepolo la capacità di superarli. Il che spiega perché grandi artisti, intellettuali o scrittori siano spesso dei maestri scarsi, tanto quanto i docenti che non sono in grado di far amare quello che insegnano ai loro alunni.
Come disse una volta mia figlia, rimproverata perché non si appassionava agli studi di storia dell'arte, «Io non odio la storia dell'arte. Io odio la professoressa che me la fa odiare».
E poi ci sono i maestri pessimi, quelli che si nascondono dietro il simulacro di una Legge assoluta e monolitica di cui si ergono a interpreti, e che è la merce più facile da piazzare nel rapporto con i discepoli. Un rapporto che porta a conseguenze estreme, come purtroppo si intuisce dietro le facce sorridenti dei giovani assassini di Dacca e di tanti come loro in circolazione.

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