La prevalenza del conflitto

15.05.2015 11:18
Categoria: Articoli giornale, COSTUME, SCUOLA

Francesco Merlo, su La Repubblica del 15 maggio, ci offre un'ironica e graffiante lettura delle polemiche che si stanno agitando, condite da molta demagogia e poca dialettica democratica, sulla protesta del mondo della scuola contro la riforma del governo. Tra le minacce di precettare gli insegnanti, "un oltraggio alla scuola pubblica", e l'improvvida scelta di far assumere i docenti dal preside, "un capetto improvvisato nel paese degli Schettino", sorge anche una domanda sul merito: che fine farebbero "quei geni della ministra Giannini e del sottosegretario Faraone", se anche nel governo si pagassero di più i più bravi?

La minaccia di precettare gli insegnanti italiani come se fossero tranvieri milanesi o netturbini romani o minatori inglesi è un oltraggio alla scuola pubblica, una di quelle prepotenze verbali che, dicevano i vecchi rivoluzionari, «fanno alzare la febbre dei popoli», eccitano gli animi, accendono lo scontro sociale. E infatti nessun governo in Italia è mai ricorso davvero alla precettazione dei professori. Neppure nei momenti più caldi e ideologici, quelli del pensiero di piazza, dell’eternità della rivolta, del perenne corteo, della scuola antiscuola che tutti insieme abbiamo faticato a seppellire.
Speriamo dunque che il presidente dell’autorità di garanzia degli scioperi Roberto Alesse, dicendo che «lo strumento della precettazione in caso di blocco degli scrutini, sarebbe la via obbligata e doverosa» si sia solo imbrattato di zelo secchione e che gli vengano perciò tirate le orecchie da Renzi, dal ministro Giannini e persino dal sottosegretario Faraone, al quale è stata affidata la battaglia “culturale” contro i nemici della buona scuola e del “cambio verso”, proprio a lui che ha un brillante curriculum da autodidatta. Quando l’ho conosciuto predicava «l’affezionamento» ora vuole «la desecolarizzazione».
È vero che il blocco degli scrutini minacciato dai sindacati degli insegnanti è la meno elegante e la meno tranquillizzante delle proteste possibili. Ma è ancora diritto di sciopero, sia pure in una forma estrema. Non cancella infatti la valutazione finale degli studenti e neppure nega le pagelle, ma solo le rinvia di uno o due giorni al massimo. Gli scrutini del resto non avvengono nella stessa data in tutta Italia: ogni scuola ha un suo calendario. E uno sciopero, nel giorno degli scrutini, non metterebbe in ginocchio l’intero Paese e non paralizzerebbe la scuola. Per le famiglie sarebbe ovviamente un fastidio, ma non certo un dramma, anche perché l’uso del registro elettronico informa quotidianamente i genitori e la legge sulla trasparenza ha cancellato — ormai sono venti anni — il mistero del voto, l’ansia terribile dell’esito finale.
Certo, se il blocco degli scrutini diventasse uno sciopero ad oltranza allora sì che la precettazione sarebbe doverosa. Ma stiamo ipotizzando un conflitto sociale che non si è mai visto, neppure nel sessantotto quando furono inseguiti tutti gli azzardi e tutte le avventure. E difatti, già per trovare un (momentaneo) blocco degli scrutini bisogna risalire al primo quadrimestre del 1991 quando i Cobas protestarono per il mancato rinnovo del contratto. Il ministro della Pubblica Istruzione era il democristiano Gerardo Bianco, che tutti chiamavano Gerry White, uno stimato latinista che andava fiero d’essere nato nella stessa provincia di Francesco De Sanctis. Eppure anche allora si aprì sulla precettazione uno di quei dibattiti di legalità che sulla scuola sono comunque approssimativi, perché c’è sempre una legge che rimanda ad un’altra legge e un’interpretazione che ne cancella un’altra.
La scuola è la palude dei cavilli, il “junkspace” (lo spazio spazzatura) dei ricorsi al Tar. Persino gli esperti hanno le idee vaghe, ogni frazione sindacale segue un suo Codice e solo questo governo è riuscito a compattare tutti e a dare un senso unico alla protesta della più scoraggiata e maltrattata categoria professionale del Paese.
Purtroppo gli insegnanti italiani, che non ci stancheremo mai di difendere, ci mettono poco a mettersi dalla parte del torto, anche quando hanno ragione. E lo hanno fatto due giorni fa invitando gli studenti a non compilare i testi di italiano e di matematica (Invalsi si chiamano).
Ebbene, usare gli scolari, che basta una scintilla per incendiare, è un vecchio vizio della demagogia, una scorciatoia del professore che chiede aiuto invece di darlo, manipola la rabbia generazionale dei ragazzi e li manda avanti come scudi umani. E tradisce pure la propria missione perché invitare a non onorare i test d’esame è uno sciopero dei libri, una sconfitta per il professore e non per il governo: un insegnante che insegna a non fare i compiti in classe è come un prete che spara in Chiesa, come un medico che fa ammalare i suoi pazienti.
La dialettica democratica prevede che il governo porti in Parlamento le sue ipotesi di riforma della scuola e che i professori possano scioperare, sino al blocco degli scrutini, senza essere trattati come forconi, come camionisti cileni, come forestali siciliani, come i privilegiati delle orchestre di Stato, come i vigili urbani di Roma che si ammalarono in massa alla vigilia di Capodanno, come molti dipendenti della Rai, insomma come i tanti che in Italia spacciano i propri privilegi per diritti sindacali.
Non è il caso degli insegnanti che temono che il preside diventi un capetto improvvisato nel paese degli Schettino con il potere (clientelare?) di assumere docenti per cooptazione e di premiare il merito e punire il demerito distribuendo danaro senza avere mai studiato management e gestione di impresa. Anche le piccole mance previste dalla riforma sono controverse perché introducono una classifica pubblica di qualità tra gli insegnanti di una stessa scuola.
Ci sarebbero dunque sezioni benedette dal certificato di eccellenza e sezioni dannate dal certificato di fannulloneria. È ovvio che i mai premiati finirebbero per diventare i reietti, nessuno vorrebbe frequentare le loro classi, e in ogni scuola ci sarebbe una bad company per straccioni. Non esistono ospedali pubblici dove i medici più bravi sono pagati di più, non ci sono magistrati che per merito ricevono gratifiche individuali. Certo, ci sono dei passaparola, c’è la fama, c’è il credito sociale, ma non c’è il danaro che divide. Anche in Consiglio dei ministri i più bravi non guadagnano di più, neppure quei geni della ministra Giannini e del sottosegretario Faraone.

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