Il papa contro le mafie: che negano l'umano

22.03.2014 09:43
Categoria: Articoli giornale, COSTUME, POLITICA

Che papà Francesco abbia deciso di partecipare alla veglia di preghiera organizzata, ogni anno, dall'associazione Libera il primo giorno di primavera, costituisce per tutti un'iniezione di coraggio. Costringendoci a un sussulto: ci vuole la spinta del Papa argentino per non rinunciare a pensare un'Italia finalmente liberata dalla prepotenza mafiosa? Mauro Magatti sul Corriere della Sera del 21 marzo.

L'ultima strage è di qualche giorno fa: la spietata esecuzione avvenuta nelle strade di Taranto, da parte di una mano incapace di fermarsi davanti a una madre con in braccio un bimbo di 4 anni. Con i due fratellini seduti nel sedile posteriore. Perché questa è, e solo questa è, la mafia: un'organizzazione che vive nell'ombra e che stabilisce il proprio dominio attraverso la violenza e la giustizia sommaria.
Eppure, le vicende di mafia sono talmente radicate nella storia italiana che la nostra coscienza civile sembra arrivare a considerarle parte della «normalità». Perché, anche se facciamo fatica ad ammetterlo, la mafia accompagna le vicende dello Stato italiano fin dalla sua fondazione: è del 1863 il primo omicidio, rimasto impunito, di un siciliano tornato sull'Isola insieme a Garibaldi, nei cui atti di indagine venne usato il termine «mafia». E trent'anni più tardi, nel 1893, con Emanuele Notarbartolo, già sindaco di Palermo e poi senatore, si ha il primo di una lunga serie di omicidi eccellenti che attraverseranno tutto il Novecento per arrivare fino a noi. Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, insieme a giornalisti, sindacalisti, magistrati, imprenditori, forze dell'ordine, semplici cittadini che, spesso lasciati soli, hanno difeso fino alla morte le nostre comuni istituzioni.
Una mafia - termine usato per indicare le tante forme di criminalità organizzata esistente nel Paese - proteiforme, capace di cambiare radicamento territoriale, forma organizzativa, attività economica. E che oggi sappiamo pericolosamente infiltrata persino nella ricca Lombardia.
Dopo 150 anni la mafia, dunque, è ancora tra noi. E nonostante le tante battaglie vinte dallo Stato, la mafia sembra un male dal quale il nostro Paese - e ancor di più il Meridione - non può sperare di liberarsi. Tanto più in un momento come questo, quando i tassi di disoccupazione, specie giovanile, costituiscono il terreno ideale per nuovi reclutamenti.
Che papà Francesco abbia deciso di partecipare alla veglia di preghiera organizzata, ogni anno, dall'associazione Libera il primo giorno di primavera, costituisce per tutti un'iniezione di coraggio. Costringendoci a un sussulto: ci vuole la spinta del Papa argentino per non rinunciare a pensare un'Italia finalmente liberata dalla prepotenza mafiosa?
Francesco sa che un Papa parla attraverso i suoi atti. Tutti ricordiamo il suo viaggio a Lampedusa, con la denuncia di quella che chiamò «globalizzazione dell'indifferenza».
Come allora con l'immigrazione, così oggi con la mafia papa Francesco, di fronte al male, non esita a mettersi in mezzo. Per dare sostanza a quanto continua a ripetere, e cioè che la sua Chiesa non può che stare con gli ultimi, con chi soffre, con la vita calpestata. E non per un discutibile pauperismo. Ma semplicemente perché sa che solo guardando i luoghi in cui l'umano è negato è possibile cogliere le contraddizioni di una modernità che si pretende trionfante.
In questo modo papa Francesco invita a purificare tanto la religione quanto la società.
Come sappiamo, i mafiosi hanno sempre preteso di avere una loro religiosità. Lo conferma il caso dell'ultimo padrino arrestato, Bernardo Provenzano, che nei suoi covi non si faceva mai mancare bibbie, santini, libri di preghiere. Una religiosità completamente distorta, asservita ai propri disegni violenti e usata per accrescere la propria legittimazione popolare. E che pure ha creato tanta confusione e ambiguità.
Con la sua partecipazione alla veglia di preghiera di Libera, Francesco ribadisce ancora una volta e ancora più autorevolmente, chi sono le vittime e chi i carnefici. Mettendosi dalla parte di chi, uomini dello Stato e uomini di Chiesa, giorno per giorno, mette a rischio la propria vita per combattere la criminalità organizzata. Arrestando i delinquenti o lavorando con gli adolescenti difficili. Dalla parte, cioè, di don Puglisi e di don Diana, due semplici preti che certo conoscevano l'odore delle pecore e conoscevano il valore delle istituzioni e che, proprio per questo, la mafia ha ammazzato. Due sacerdoti appartenenti alla lunga schiera di quei preti comuni che riempiono il pantheon popolare del nostro Paese: a cominciare da don Bosco e don Sturzo, per passare a don Mazzolari e don Milani fino a don Gallo e don Giussani. Preti del popolo, tutti diversi l'uno dall'altro, per alcuni aspetti discutibili, eppure «eroi» civili e religiosi che hanno fatto crescere la nostra coscienza collettiva perché non hanno esitato a prendersi la loro responsabilità. Di fronte al dolore delle persone e al degrado della società. E, proprio per questo, capaci di mostrare il comune cammino tra la Chiesa e lo Stato verso la creazione di una società più giusta e più umana. Un cammino che Francesco torna oggi con forza a indicarci.