La scommessa vincente della democrazia contro la crisi

29.12.2013 18:29
Categoria: Articoli giornale, ECONOMIA, POLITICA

Chiudiamo un anno ancora oppresso da difficoltà e incognite con una riflessione sul controverso rapporto tra economia e politica offerta da Guido Rossi nell'editoriale del Sole 24 ore di domenica 29 dicembre. Può apparire singolare che un atto di accusa così esplicito contro i guasti "a tutto campo" prodotti da un'ideologia neoliberista sia proposto sulle pagine del quotidiano di Confindustria; acquista così ancor più forza il richiamo alla necessità che "l'Europa abbandoni la sua politica legata alle disuguaglianze e alle avventure del capitalismo finanziario ... e riprenda la strada della difesa dei diritti fondamentali". Un invito a darsi prospettive diverse da quelle di un dominio incontrastato del libero mercato per costruire una società più giusta, che riaffermi il primato della democrazia.

Il nuovo anno significativamente cade nel centenario della prima guerra mondiale e impone un bilancio con almeno due diverse valutazioni.
La prima è quella che l'attuale crisi non pare sostanzialmente difforme, ancorché non identica, rispetto a quelle precedenti, che si son ripetute in cicli ricorrenti, sicché in qualche modo poi, sia pur nel dominio della confusione e della paura, hanno trovato una soluzione.
La seconda è che si tratti invece di una crisi del tutto nuova, e che l'attendismo delle democrazie non sia in grado di risolverla, ma si richieda invece un cambiamento radicale nel governo del mondo, soprattutto a causa della totalitaria natura globale della crisi stessa.
Le crisi economiche negli ultimi cento anni si sono accompagnate a quelle profonde delle democrazie, le quali ne sono uscite sostanzialmente vittoriose, nonostante l'ignavia e il fatalismo che le caratterizza, come già aveva riconosciuto il loro maggior teorico Alexis de Tocqueville.
Così in molti Paesi le risposte alla grande depressione del '29 consistettero nell'abolizione di uno dei poteri fondamentali della democrazia, cioè l'autorità legislativa; abolizione comune nelle autocrazie totalitarie, dal fascismo, al nazismo, al comunismo. È pur vero che a volte la divisione dei poteri è pericolosamente rinnegata, anche attraverso prevaricazione di qualcuno dei tre poteri, più spesso quello esecutivo, con repressione dei diritti fondamentali che della democrazia costituiscono l'essenza.
Basterà, per chiarire il discorso, fare riferimento al recente ponderoso studio di Ira Katznelson (Fear Itself: The New Deal and The Origin Of Our Time - New York, 2013) dal quale risulta con chiarezza che il New Deal di Roosvelt nacque in un'atmosfera di assoluta incertezza sulla capacità e il destino della democrazia liberale, tant'è che lo stesso New Deal e la creazione di un'economia dello Welfare State fu possibile con l'intervento soprattutto dei membri del Congresso sudisti, ai quali venne garantita la permanenza di un sistema legale di segregazione razziale. L'incontrovertibile risultato raggiunto con la partecipazione alla seconda guerra mondiale è presentato come salvaguardia della democrazia americana attraverso profondamente ambigue alleanze con il sud degli Stati Uniti ante diritti civili e con l'Unione Sovietica di Stalin.
Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se «minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati». Ciò ha portato a una spinta alla deregolamentazione del capitalismo finanziario, alla fuga dello Stato dalla protezione dei diritti umani, dalla salute all'istruzione, al lavoro, alla dignità della vita e a favore dell'esaltazione delle disuguaglianze.
Quel che può apparire strano, e che rende la presente crisi più complessa, è che le esigenze dell'economia, ridotta all'autogoverno del mercato globale, e di mancanza di una sovranità mondiale che ne imponga una regolamentazione, hanno ridotto anche la Giustizia a una fattispecie contrattuale. Deals de Justice è il titolo del recente libro di Garapon e Servan - Schreiber (2013), nel quale si chiarisce che le grandi multinazionali, qualora sospettate di violazione della legislazione anticorruzione americana e di criminalità economica, sono indotte a collaborare con il Department of Justice (DOJ) o con la Sec (Securities and Exchange Commission), per arrivare a un accordo (Deal) al fine di evitare un lungo e dispendioso giudizio. Siamo di fronte a una sorta di ossimoro, di un diritto senza giustizia, con l'attrazione nella competenza del potere esecutivo americano dell'ordinamento del commercio internazionale, dove le imprese sono tenute a svolgere costose autoinvestigazioni e a dichiarare le proprie violazioni, in contrasto con il Bill of Rights che garantisce il diritto di non incriminarsi. Può destare sorpresa che dal 1977 i dieci più importanti accordi transattivi con le autorità americane sono stati conclusi da nove multinazionali straniere e una sola americana, tanto da far credere che questo strumento di giustizia globale dei mercati serva a proteggere le imprese americane a discapito di quelle straniere e a far affluire non indifferenti somme di denaro al Tesoro americano.
La conclusione è che il mercato altro non sembra che un sistema che vive sul rischio, nel quale perciò tutto risponde solo al rischio, compreso il diritto penale. Lo ha ricordato Michel Foucault nei corsi sulla Naissance de la Biopolitique, dove ha precisato che il diritto penale non comprende più l'insieme degli atti puniti dalla legge, bensì ogni azione che fa correre il rischio a un cittadino di essere condannato a una pena, sicché il rischio è che il giudice da «ricercatore del vero», come voleva Beccaria, diventi «nemico del reo». Insomma un diritto che non si rivolge più alla coscienza morale degli individui ma alla capacità di calcolo. Dall'homo oeconomicus all'homo legalis, all'homo penalis e all'homo criminalis diventa il percorso tracciato da Foucault a riprova della deriva giuridica del neoliberismo.
Questa crisi economica è dilagata nella crisi della democrazia, per diventare una crisi totale del diritto. Eppure, secondo Tocqueville, con tutti i suoi difetti, la democrazia nella sua versatilità e adattabilità è l'unica capace di uscire dalle lunghe crisi ed è su questa «Provvidenza democratica», come l'aveva chiamata, che va formulato il viatico per il nuovo anno.
L'evidente e urgente necessità è quella che l'Europa abbandoni la sua politica legata alle disuguaglianze e alle avventure del capitalismo finanziario, dei pareggi di bilancio e delle politiche di austerità e che riprenda la strada della difesa dei diritti fondamentali, rovesciando la priorità da un Leviatano tecno-amministrativo per puntare su un'Unione europea democratica. Si potrà così liberare dai populismi e dai tentativi autocratici che stanno emergendo nei vari Paesi e giungere a un'autentica sovranità democratica europea, non impostata sull'economia e sulla difesa della ricchezza del capitale finanziario a svantaggio dei diritti dei cittadini, come avrebbe voluto il giudice della Corte Suprema americana Louis Brandeis, che un secolo fa ricordava: «Si può avere la democrazia oppure un'enorme ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non si può avere le due cose insieme».

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