Qualcuno dica che quel gioco non è un gioco

21.10.2013 19:43
Categoria: Articoli giornale

"Deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole dica no, non è questo che devi accettare per essere accettata". Concita De Gregorio (La Repubblica, 21 ottobre 2013) sulle molestie e le violenze alle ragazze.

È come stare pomeriggi interi al telefono, a canzonare il tempo a prenderlo in contropiede e ingannarlo. Una ragazza di sedici anni è una persona a cui la vita deve ancora succedere e non lo sa, e ha un po’ paura e un po’ fretta, e molto desiderio che passi veloce il momento e che arrivi quello, alla meta dei diciotto, in cui “nessuno mi può obbligare, ora”.

Io non lo so, nessuno lo sa tranne lei e quelli che erano lì, cosa è successo alla ragazzina di Modena che – dicono gli investigatori, i parenti, ora anche gli adulti che rivestono incarichi pubblici – una sera d’estate a una festa di compagni di scuola è stata violentata da cinque, sei, non è sicuro quanti amici. Amici, attenzione. Nessun livido, nessun graffio, nessun segno di violenza che segnali la sopraffazione fisica in senso proprio. Erano compagni di scuola. Alcuni maggiorenni da poco, varcata l’agognata meta dei diciotto, altri, almeno uno, no. Aveva bevuto lei, avevano bevuto probabilmente tutti perché come sa chi si guarda intorno gli adolescenti, oggi, bevono. Superalcolici, moltissimo. Costano meno delle droghe, spesso si trovano nelle case già disponibili all’uso. Shortini, alla mescita. Pochi euro a bicchiere, nessuno chiede la carta d’identità. Bevono i quindicenni come i trentenni, uguale.

Io non lo so com’è andata, quella sera, in una casa della più rassicurante delle città emiliane, la Modena delle scuole modello degli imprenditori che non si arrendono al terremoto, delle donne imprenditrici che vendono figurine nel mondo, dei ristoranti celebrati oltreoceano. Uno faceva il palo, scrivono gli agenti di polizia, gli altri a turno nella stanza “avevano rapporti sessuali completi” con la ragazzina. Non c’è niente di più algido di una relazione, niente di meno adatto a descrivere il tumulto, il disordine, lo sgomento, la resa. Lei cosa pensava, come stava, cosa voleva, cosa diceva? Non si sa, nessuna relazione può raccontarlo.

Dicono, i verbali, che erano tutti ragazzi “incensurati e di buona famiglia”. Aggiungono, le cronache, che sono passati quasi due mesi dall’evento e che nessuno – nessuno – ha fatto un gesto o ha detto qualcosa, né a scuola né in famiglia, nelle molte famiglie coinvolte, che somigliasse alla presa d’atto di un reato, o quanto meno di una vergogna, di una colpa, di un dispiacere. Niente, silenzio. Il sindaco ieri ha detto che “inquieta che questi ragazzi non distinguano il bene dal male”. Inquieta, certo. Pone il problema della responsabilità. È loro, che geneticamente, naturalmente non sanno distinguere o è della generazione che li ha cresciuti, e non gli ha fornito i ferri essenziali per l’opera di elementare distinzione? È dei figli o dei padri, la colpa?

Anni fa, a Niscemi, Caltanissetta, un gruppo di minorenni massacrò di botte, strangolò con un cavo di antenna e gettò in una vasca di irrigazione una coetanea, Lorena Cultraro, 14 anni. Era incinta, rivelò l’autopsia. Uno degli assassini, quindicenne, chiese al giudice, dopo aver confessato l’omicidio: “Ora che le ho detto cosa è successo posso tornare a casa?”. A vedere la tv, a giocare alla play. Tornare a casa. Era il 2008, cinque anni fa. Si scrissero articoli sgomenti, intervennero psicologi di fama, dissero che certo in quelle zone del Paese, al Sud, è tutto più difficile. Zone d’ombra, povertà di mezzi e di sapere, l’adolescenza sempre un enigma. Ora, cinque anni dopo, siamo a Modena. Emilia culla di bandiera di democratica civiltà e di sapere. Certo questa ragazzina non è morta, per sua fortuna. Forse non ha nemmeno lottato per evitare quel barbaro rituale che chissà, magari era proprio quello che l’avrebbe fatta diventare grande, finalmente. Forse per qualche tempo ha pensato: è stato quello che doveva essere.

Però arriverà, deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole senza essere per questo canzonato e dal coro irriso dica no, non è quello che deve, non è questo che devi accettare per essere accettata. Non devi fare silenzio. Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco. Non è nemmeno un gioco.

Verrà il giorno in cui capiremo l’abisso in cui siamo precipitati pensando che fosse l’anticamera del privé del Billionaire, che fortuna essere ammessi all’harem, e sapremo di nuovo dire, come i nostri nonni ci dicevano: è una trappola, bambina. Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l’auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.

La Repubblica, 21 ottobre 2013