La paura della morte improvvisa irrompe tra noi
"La sconosciuta costantemente censurata morte, l’Innominabile, se appena si affaccia all’orizzonte scatena il panico. Ci pensiamo immortali? O forse non pensiamo proprio a certe questioni, finché possiamo" (Marina Corradi su Avvenire del 25 febbraio 2020).
Morire a novant’anni, a Milano, nel giorno dell’esplosione del coronavirus. Morire in una notte, dopo una corsa in ospedale e poche ore di agonia: semplicemente perché il corpo è logoro, e il cuore non regge più. È accaduto a una persona molto cara, in casa nostra. Quando abbiamo capito che la situazione precipitava, sabato sera, abbiamo tremato: e ora ci sarà un’ambulanza, troveremo un letto in ospedale? Pochi giorni prima, in un Pronto soccorso del centro, l’esperienza era stata drammatica: venti ore in corridoio, senza dormire né mangiare, finché la nonna stessa aveva pregato di tornare a casa. E ora, col coronavirus e la paura come una cappa sulla città? – ci siamo detti angosciati. Ma l’ambulanza del 118 arriva in dieci minuti. Tre giovani volontari preparati, gentili, caricano la paziente e via, a sirena accesa, verso l’ospedale – nella città semideserta di un surreale sabato sera (la nonna ha chiuso gli occhi, non ci risponde più). Il San Carlo Borromeo è un grandissimo ospedale vicino allo stadio di San Siro.
A vederlo da fuori, così enorme e grigio, mette un po’ di timore. L’ingresso però, sorprendente, questa notte è quasi deserto. Due addetti all’accettazione ci chiedono soltanto se nessuno in casa è stato in zone a rischio. La paziente viene portata subito in sala visite. Mentre aspetto osservo il via vai di infermieri con la faccia segnata dalla stanchezza, forse dal nervosismo, che compostamente fanno il loro lavoro, la mascherina sul volto. Non c’è un solo letto stanotte in questo grande ospedale, e, ci dicono, in tutta Milano: ma la malata viene messa in una dignitosa stanza del Pronto soccorso. Ossigeno, flebo. Il monitor scandisce l’affannosa corsa del vecchio cuore. Col passare delle ore la situazione si aggrava. Ci chiamano: 'Venite a salutarla'. Bardati di camice e maschera entriamo in Rianimazione. Le facce pallide, ma attente di medici e infermieri mi colpiscono, e anche la loro gentilezza. La calma, soprattutto: perché fuori di qui a quest’ora i supermercati vengono presi d’assalto. «Sta andando a ruba tutto – ci telefona sbalordita la figlia – saponi e detersivi sono esauriti, la gente riempie i carrelli di provviste come stesse per finire il mondo». In effetti, su web e media domenica l’impressione è questa. Solo poche voci ricordano che il bilancio di decessi tra gli anziani fragili per le complicazioni dell’influenza, ogni anno, è di centinaia di vittime, e che nella maggioranza dei casi il nuovo virus si manifesta in maniera non drammatica.
Ma no: sembriamo, e in tanti, impazziti. Quella calca davanti agli ipermercati, quei grandi carrelli che si tamponano, nell’ansia di colmarli. Zeppi: tutto quello che ci sta. Roba, roba, in una arcaica paura di una carestia mai conosciuta. In una scompostezza che dice qualcosa di noi, o almeno di molti. La sola ipotesi di un improbabile contagio è intollerabile. La sconosciuta costantemente censurata morte, l’Innominabile, se appena si affaccia all’orizzonte scatena il panico. Ci pensiamo immortali? O forse non pensiamo proprio a certe questioni, finché possiamo. Il risveglio dalla collettiva smemoratezza, in questa domenica 23 febbraio 2020, è brutale. Nella notte ci chiameranno a casa: la nonna sta morendo. Ce la fanno salutare, cercano il cappellano per l’ultima benedizione. Gli occhi dell’infermiere della Rianimazione, sopra la mascherina verde, mi resteranno in mente: calmi, e rispettosi del nostro dolore. Chi fronteggia ogni giorno la morte non è andato nel panico. Come soldati in trincea, sfiniti, vigili, non abbandonano la postazione. La porta scorrevole del Pronto soccorso del San Carlo che ci si chiude alle spalle sembra una frontiera: con la fervorosa Milano dei sani, che lavora, corre, produce, si diverte, vive. A volte come dentro un’amnesia. Credendoci immortali. Ce ne torniamo a casa zitti, la figlia più piccola piange la sua nonna, che tanto l’ha amata. Ci mancherà, lo sappiamo, il pane dell’Eucarestia. (Quanto ci è necessario, lo sento per la prima volta nella mai provata mancanza, il vero Pane). All’alba, nella precoce improvvisa primavera, i peschi nei viali sono di colpo tutti fioriti. Sembrano un segno: silenzioso, da mille generazioni fedele.
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