Scuola e valutazione formativa, binomio inscindibile
Le ricerche sulla valutazione fanno un salto di qualità molto significativo nel corso degli anni Sessanta, grazie ad alcuni studiosi che mettono insieme aspetti docimologici e pedagogici. Fra questi va segnalato Michael Scriven, morto lo scorso anno all’età di 95 anni dopo aver svolto una lunga carriera accademica nelle più prestigiose università statunitensi, pur essendo di origini britanniche.
A lui, universalmente considerato il “fondatore” della moderna disciplina della valutazione scolastica, si deve la distinzione, diventata classica, fra valutazione sommativa e valutazione formativa: quest’ultima è finalizzata a intervenire durante il processo formativo e a correggere in itinere l’intervento didattico, in modo da migliorare gli apprendimenti degli allievi, mentre la prima consiste soprattutto nella descrizione dei risultati raggiunti ed ha la funzione di “certificare” conoscenze, abilità e competenze conseguite da ciascuno.
Questa distinzione è quella a cui ancora oggi si fa riferimento e la si ritrova, per esempio, negli stessi documenti dell’Invalsi. L’Istituto nazionale di valutazione ricorda infatti che “la valutazione formativa coadiuva il processo di apprendimento in itinere, fornendo informazioni sui livelli di apprendimento in modo da poter adattare gli interventi alle singole situazioni didattiche e attivare tempestivamente eventuali strategie correttive” mentre “la valutazione sommativa si svolge solitamente al termine di un trimestre, di un quadrimestre o di un anno scolastico e fornisce, quindi, in un preciso momento temporale, una prova del raggiungimento dei traguardi previsti per quello step del percorso formativo”.
Semplificando molto, possiamo anche dire che la valutazione formativa fornisce al docente elementi per confermare o per modificare il proprio intervento didattico, mentre la valutazione sommativa è finalizzata soprattutto a realizzare un “bilancio finale” dell’intervento formativo e può avere anche una funzione “selettiva”.
La valutazione sommativa serve quindi soprattutto a “rendicontare” il livello e la qualità della preparazione degli allievi; ad essa sono generalmente associate le decisioni relative al passaggio dell’alunno da una classe all’altra o il rilascio di certificazioni o attestati di fine corso.
Per una migliore comprensione della questione va sottolineato un aspetto, messo ben in evidenza dal pedagogista Lucio Guasti anche in volume pubblicato dal Centro Studi Sinascel Cisl nel 1992: nella cultura anglosassone che ha elaborato la distinzione fra valutazione formativa e sommativa intercorre un elemento che difficilmente è presente nella struttura italiana e cioè il rapporto “triangolare” fra il committente di un programma, i soggetti che lo realizzano e la valutazione fatta da un ricercatore “terzo”. In altre parole: la valutazione finale (o sommativa) degli esiti del progetto è competenza del valutatore esterno, mentre i soggetti che sviluppano il progetto stesso possono utilizzare gli strumenti della valutazione formativa per intervenire durante il processo e per migliorarne gli esiti.
L’espressione “valutazione formativa” era nata dunque in un ambito altamente specialistico e successivamente è entrata a far parte del dibattito pedagogico.
In Italia, si deve a Benedetto Vertecchi l’ingresso del tema nelle pagine delle riviste più diffuse fra i docenti. Questo avviene negli anni 70, quando molti docenti “toccano con mano” l’inadeguatezza dell’atteggiamento “a-valutativo” che si era sviluppato in una parte del mondo della scuola negli anni precedenti.
Fraintendendo del tutto il concetto di uguaglianza delle opportunità educative, in molti docenti, soprattutto in quelli più vicini al “movimentismo” di quel periodo, si era sviluppata l’idea che, per superare la “selezione di classe” evidenziata anche nella Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana, potesse bastare tenere lontane dalle aule scolastiche le pratiche valutative. Ci si accorse ben presto, però, che in questo modo si dava vita a forme di scolarizzazione vuote e puramente nominali e si comprese che la vera sfida è esattamente quella di ricorrere a strumenti valutativi finalizzati a sostenere le fasce più svantaggiate della popolazione scolastica.
Proprio su questo aspetto, il contributo teorico/pratico di Benedetto Vertecchi è stato decisivo. In numerosi suoi lavori egli ha approfondito la questione della uguaglianza delle opportunità, tema centrale da chiarire per poter rendere la scuola realmente non selettiva, ma luogo di promozione di tutti.
In prima battuta potrebbe sembrare che fornire alla generalità della popolazione scolastica le stesse opportunità di istruzione, soprattutto nelle prime fasi del percorso formativo, equivalga davvero a garantire a tutti buoni risultati: inevitabilmente, però, nel percorso scolastico, le differenze (sociali, ma non solo) fra gli allievi interverranno per favorire gli uni e “penalizzare” gli altri.
Ugualmente illusoria è l’idea di offrire a tutti lo stesso trattamento accompagnato magari dall’attenzione al merito individuale. Vertecchi ha sempre mantenuto su questo una posizione precisa, sottolineando che la vera funzione di una scuola democratica è quella di organizzare la proposta didattica in modo da garantire il più possibile l’uguaglianza dei risultati reali di apprendimento, obiettivo che si può tentare di raggiungere con un modello di istruzione individualizzata.
Ed è proprio qui che entra in gioco, secondo Vertecchi, la valutazione formativa, occasione di pratiche formative per una valutazione equa e “democratica” ma anche per migliorare la didattica quotidiana. Emblematico è il titolo di un testo molto importante del noto pedagogista (“Decisione didattica e valutazione”) che sta ad indicare appunto la necessità di usare gli esiti della valutazione per assumere decisioni relative all’organizzazione delle attività formative e, viceversa, di decidere le pratiche didattiche non per “imitazione” o “consuetudine”, ma sulla base di dati obiettivi.
Nel corso degli anni Sessanta si iniziò a parlare anche di un’altra tipologia di valutazione, quella diagnostica. Questo genere di valutazione ha la funzione di evidenziare il livello di competenze, abilità e conoscenze già acquisite dall’alunno prima dell’inizio di un percorso di apprendimento ed ha lo scopo specifico di organizzare l’intervento formativo in modo più preciso.
La valutazione diagnostica, infatti, consente proprio di raccogliere informazioni per verificare i livelli di partenza degli allievi in modo da personalizzare e individualizzare il percorso di ciascuno.
Se ben utilizzata, la valutazione iniziale e in itinere può essere molto utile pure all’alunno stesso, che può servirsene anche a sostegno dei propri processi autovalutativi.
A proposito di quest’ultimo aspetto, va detto che le pratiche di autovalutazione avevano fatto ingresso, almeno in parte, nell’attività scolastica già nei decenni precedenti, grazie soprattutto alle ricerche e alle esperienze condotte nell’ambito della pedagogia della scuola attiva. Fra tutti vale la pena di ricordare Célestin Freinet e i tanti insegnanti che si rifacevano al suo “modello” pedagogico, diffusosi in Italia grazie in particolare a Bruno Ciari, Mario Lodi, Albino Bernardini e molti altri.
L’esperienza dei “brevetti” che Freinet aveva inserito fra le sue tecniche è un esempio significativo di autovalutazione: ciascun alunno viene invitato a “specializzarsi” in una pratica considerata particolarmente interessante; può essere una pratica tipicamente scolastica (il calcolo mentale o la produzione di un testo narrativo, per esempio) oppure una attività artistica o sportiva. Quando l’alunno ritiene di aver raggiunto un livello adeguato di competenza, presenta il proprio lavoro a tutti i compagni e consegue il brevetto corrispondente. È facile osservare che si tratta di una pratica che prende origine da proposte educative tipiche dello scoutismo di Baden Powell.
A partire dagli anni ‘90, in concomitanza con l’entrata in vigore delle norme sulla autonomia scolastica, il termine autovalutazione viene applicato non solo agli studenti, ma anche alla singola istituzione scolastica. “L’autovalutazione di istituto – ricorda ancora Lucio Guasti - risponde alla esigenza di superamento del principio caratterizzante la didattica centrata sul ‘compito’ dello studente in favore di una direzione volta a considerare la scuola nel suo complesso come ‘centro formativo’. La scuola ad una dimensione valutativa viene sostituita con una scuola a dimensione valutativa plurima. In questo modo si intende sottolineare la sua responsabilità complessiva, comprendente tutte le sue variabili e articolazioni piuttosto che la sola responsabilità dello studente nell’essere l’unico facitore delle sue fortune o sfortune. Viene pertanto stabilita una più stretta correlazione tra qualità della scuola e qualità degli apprendimenti”.
La valutazione assume in tal modo una connotazione sempre più sistemica e riguarda non più i soli studenti, ma anche tutti gli altri soggetti: è la logica sottesa al sistema nazionale di valutazione, la cui creazione venne proposta nel 1990 nel corso della Conferenza nazionale sulla scuola, proposta che determinò la trasformazione del CEDE (Centro europeo dell’educazione) in Invalsi.
Ma di questo parleremo in una prossima puntata della nostra rubrica.